giovedì 9 aprile 2009

Il Romanzo dell'Aviazione

Be'..ce l'abbiamo quasi fatta.

Il Romanzo dell'Aviazione (da Icaro ai Voli Spaziali), è in vista del traguardo.
Edito per la prima volta da Mursia nel 1970 (due edizioni, e premio Soroptimist per la letteratura giovanile), non è (sol)tanto una storia, una lunga cronologia, di nomi, di fatti, di date, quanto la narrazione di come il desiderio del volo prende corpo nell'animo e nell'intelligenza umana, come il sogno di poter volare divenne, improvvisamente, realtà, magia, strumento quotidiano.
Si racconta l'emozione, la meraviglia di chi vide il primo aerostato, il primo dirigibile, il primo aereo nel cielo, con la stessa gioia del bambino che sale su un castello di mobili per lanciarvi dal di sopra il suo primo modello (cosa veramente fatta dall'Autore, infatti).
Felice Trojani fu testimone dell'arrivo dell'aviazione a Roma, con il primo volo di Delagrange in Piazza d'Armi, e successivamente egli stesso artefice e protagonista dell'affermazione dell'aeronautica.

Con le illustrazioni di Francesca Quatraro (vedi il suo blog) e la revisione di Ascanio Trojani verrà pubblicato da Lulu, nelle due versioni interamente a colori ed in bianconero.
Estratti ed altri contenuti sono progressivamente resi disponibili sul sito di Ascanio Trojani.
Di seguito una anteprima aggiornata dell'edizione in corso di editing.

il Romanzo dell'Aviazione - Estratto

F e l i c e T ro j a n i Il R omanzo dell'Aai Voli Spaziali viazione da Icaro illustrazioni di F r a n c e s c a Q uat r a ro r e v i s i o n e d i A s c a n i o T ro j a n i Trojani, Felice Il Romanzo dell’Aviazione - da Icaro ai Voli Spaziali / Felice Trojani ; revisione di Ascanio Trojani ; illustrazioni di Francesca Quatraro. - Lulu / Ascanio Trojani. - Roma ; I e II edizione Mursia - Milano ; Mursia 1969-1970. : Lulu, 2009. - 300 p. : ill. : 21,59 x 27,94 cm - ISBN XXXXXXXXXXX-Xx CDU Dewey racconto non vuole essere una, storia, non vuole essere una cronologia; non è un erudito lavoro di compilazione,non un arido elenco di fatti e date. Questo racconto vuole narrarvi come il desiderio del volo pungolò l’ardire degli uomini fin dalle età più remote: molti animali volavano, il fatto del volo era visibile, palese, naturale; ma all’uomo, che pure aveva vinto i mari, dominato la terra, il ciclo sembrava precluso. Perché ? L’inibizione del volo pesava sull’uomo come una menomazione, come una condanna, e la costante aspirazione al volo si espresse in favole, in leggende e miti, in poemi e pitture e sculture, e in studi, progetti e tentativi forse più antichi di quanto non si creda. Questo racconto vuole narrarvi come l'uomo, dopo il sogno millenario, quasi inaspettatamente, si staccò dalla terra. Se non fu volo vero e proprio, fu un passo enorme, e lo accompagnarono grandi illusioni presto distrutte; e il desiderio, lo studio, l’opera verso il volo si fecero sempre più intensi, appropriati, efficaci. E infine, appoggiandosi sull’irruente progredire della meccanica, l’uomo volò. Questo racconto vuole dirvi quanto grandi furono l’entusiasmo, la passione, l’abnegazione, l’eroismo che generarono il volo meccanico. Questo racconto vorrebbe trasfondere nel vostro animo l’emozione di chi vide il primo aerostato innalzarsi, il primo dirigibile solcare il cielo, il primo aeroplano staccarsi da terra. Vorrebbe far rinascere in voi la commozione che pervase l'Europa in quei giorni nei quali l'aviazione si affermo, crebbe, ingigantì. Aeronautica? Aviazione? Più leggero, più pesante dell'aria? Non li separeremo, li considereremo quali sono stati: tratti di un medesimo cammino, tappe sulla strada che ci condusse alla padronanza, dei cieli; e il titolo del racconto conterrà la bella, alata parola: aviazione. Il dirigibile è ormai sorpassato, forse sta per esserlo anche l'aeroplano, forse sta per iniziarsi l’era che vedrà il dominio del motore. Il motore, isolato, trionfante, eliminerà ogni altro mezzo aereo; ma il termine aviazione resterà a indicare un'affermazione gloriosa dell'umanità. Ciò che è antico ha valore, è considerato, studiato, tenuto in conto; ciò che è ancora soltanto vecchio è messo in ridicolo, disprezzato, buttato via. I primi aeronauti sono ormai antichi: le mongolfiere dipinte a medaglioni e festoni, i palloni a fusi variamente colorati, i viaggiatori del ciclo in tricorno e parrucca bianca e redingote, gilet, culotte, calze, scarpini e spada, sono ormai antichi e decorativi, e soggetto di artistiche stampe che non sfigurano sui muri e in paralumi; ma i primi dirigibili, i primi aeroplani, i primi piloti, i primi aviatori, sono ancora soltanto vecchi. Questo P R E S E N TA Z I O N I I sommari dirigibili, i biplani folti di montanti e tiranti, i leggeri monoplani, quelle ali intelaio diafane contro il sole, quel pilota che in bombetta, colletto duro, cravatta, impeccabile tout de même, ritto nella cesta dietro l’elica frullante doppiava con il suo minuscolo dirigibile giallo la Torre Eiffel, quegli aviatori che in berretto e abito sportivo, seduti sul bordo dell'ala inferiore dei biplani o sulla fusoliera dei monoplani sembravano cavalcare stravaganti ippogrifi, appaiono ridicoli agli occhi delle ultime generazioni. Ma quanto studio, quanto lavoro, quanto amore erano costate quelle macchine, e come erano belle quando s ì lanciavano frementi a scalare il cielo, quando sonore e vibranti ci sorvolavano, quando lente scendevano e si posavano pacate sul campo! E quanto valore era rinchiuso nel petto degli uomini che pilotavano quelle macchine, quasi sempre concepite dalla loro mente, costruite dalle loro mani! Il fuoco sacro che li pervadeva non li rendeva tetri ne musoni: animati da un costante sereno buon umore affrontavano coscientemente ogni giorno la morte, ma amavano la vita. Innumerevoli sono coloro che si guadagnarono un posto nella storia della nobile arte del volo; non è possibile citarli tutti. Sarebbe impossibile nominare tutti quelli che vi si affermarono con le loro creazioni e i loro successi, tutti quelli che caddero segnando con il loro sangue le pagine di un'eroica epopea. Non pretendiamo farlo: vorremmo soltanto suscitare, nei giovani che ci leggeranno, stima e ammirazione per chi mosse alla conquista del cielo. Vastissime sono la letteratura e la documentazione del volo, spesso inesatte e contraddittorie, inquinate spesso da errori che vennero e vengono meccanicamente riprodotti e trasmessi: scrivere una opera la quale contenesse tutte le notizie riguardanti il volo, nella quale ognuna fosse stata controllata all'origine, sarebbe impresa immane, forse irrealizzabile, certo sproporzionata agli scopi di questo libro. Ci siamo limitati, perciò, alle notizie e ai fatti che abbiamo giudicati essenziali, e ne riportiamo le versioni e i dati che giudichiamo veritieri, basandoci spesso anche sulla nostra memoria, sulla nostra testimonianza. L'amico Piero Magni, la cui rara competenza aeronautica è sostenuta da un prezioso archivio, accompagnò con fattiva simpatia questa nostra fatica. E le conversazioni che avemmo valsero a farci rivivere un magico passato. Felice Trojani, Milano 1969. è nato il 18 aprile 1897 a Roma, dove ha compiuto studi secondari classici e superiori tecnici. Ex combattente, ufficiale superiore di complemento del Genio Aeronautico. Ingegnere civile, meccanico, aeronautico, ha progettato e costruito opere edili, macchine, aeroplani, dirigibili. Ha lavorato in Italia, Giappone, Russia, Brasile. Ha collaborato alla preparazione delle spedizioni aeree polari dei dirigibili Norge e Italia, e ha partecipato a questa ultima in qualità di membro dell'equipaggio. Ha scritto libri sull'aviazione e libri di divulgazione scientifica e tecnica. È autore de La coda di Minosse, un resoconto storico sulla spedizione polare cui ha partecipato, ricostruita in tutti i suoi più minuti e drammatici particolari, e nelle polemiche interpretazioni che ebbe nella stampa e nell'opinione pubblica; per il Minosse, Felice Trojani ha ricevuto il Premio di Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha inoltre pubblicato una versione per ragazzi del drammatico avvenimento nel volume intitolato L'ultimo volo, che ottenne il Premio Castello 1967 per il miglior libro di letteratura giovanile. Con il presente volume ha meritato il Premio Soroptimist 1970 . Felice Trojani illustratrice per l'infanzia (e per chi crede che un po' di infanzia ci debba essere sempre dentro ognuno), senza limiti, confini, mura, ostacoli. Saltella tra il “tecnico” e la fantasia, tra spazi grigi e distese di colori, dopo aver seguito i corsi di Francesca Chessa, Pia Valentinis e Chiara Carrer. Ha esposto in Terre di Confine (personale) ad Altamura, Acquaviva delle Fonti e Recanati nel 2007 ; in Confine (personale), a Roma nel 2007; Bagaglio a Mano (personale) a Milano nel 2008. Ha partecipato alle collettive di illustrazione alla Accademia Pictor di Torino nel 2007, alla Fondazione Marazza di Borgomanero nel 2007, alla Gattoteca a Firenze nel 2008, A spasso nei sogni a Lecce nel 2008. Ha pubblicato Confine (La Capriola, 2006), Mio nonno è una formica (La Capriola 2007), La banda dei Gelsomini (Il Castoro, 2008). Francesca Quatraro I NDICE Presentazioni i LIBRO PRIMO • ICARO I II III IV Icaro Commento al mito di Icaro Miti, leggende, cronache, poesia, svarioni, scienza Illusioni, fantasie, umorismo, esperienze. (1670-1783) 3 9 12 20 L IB RO SEC O N DO • MON TGO L FI ER I Montgolfier e Charles (1783) II Una parentesi: i primi aeronauti italiani (1783-1785) III La grande speranza. IV Aeronauti senza ventura (1785-1824) V Voli, spettacoli, illusioni, patriottismo (1785-1791) VI II pallone osservatorio (1793-1893) VII Avviso ai lettori VIII L'aerostato si avvia a diventare dirigibile (1797-1850) IX L'aerostato diventa dirigibile (1852-1885) 35 44 59 62 79 83 95 96 106 L IBR O TERZO - L I L IEN T HAL I Concepimento dell'aeroplano. Un modello vola - e continua a volare II Mouillard (1881) III II dottor Marey (1890) IV VictorTatin (1879-1913) V I libri di Leonardo (1893) VI II passo più luogo della gamba: tre insuccessi prevedibili VII Dal volo planato di Lilienthal al volo a motore dei Wright VIII Wolfert, Schwartz (1897) IX Alberto Santos-Dumont dirigibilista (1898-1903) X Severo, von Bradsky (1902) 127 129 132 134 135 140 143 149 152 168 XI Ferdinand von Zeppelin, « il conte pazzo »(1900-1909) XII L'ingegnere Alexandre Gustave Eiffel (1892-1910) XIII I dirigibili si moltiplicano (1900-1911) 172 182 185 L I BRO Q U ARTO • BL ÉR IO T I Alberto Santos-Dumont aviatore (1906) II Voisin, Delagrange, Farman, e la demoiselle di Santos-Dumont III Louis Bleriot e Robert Esnault-Pelterie (1901-1909) IV L'« Antoinette » (1902-1910) V Wilbur Wright in Francia (1908) VI I primi voli del più pesante in Italia (1908-1909) VII Blériot attraversa la Manica (1909) VIII Le settimane d'aviazione: Reims, Brescia (1909) IX Morte del capitano Ferber (1909) X Lutti e glorie (1910) XI II volo che valicò le Alpi (1910) XII Gare. La guerra di Libia. Progresso inarrestabile(1911-1914) XIII La grande guerra (1914-1918) L IB RO Q UI N TO • L I ND BE RGH I Dirigibili civili, ali a sbalzo, alianti (1918-1922) II L'immediato primo dopoguerra. Le prime traversate dell'Atlantico. III II canto del cigno del più leggero (1919-1937) IV II surrogato delPelicottero: l'autogiro di Juan de la Cierva V L’aviazione riprende ad avanzare (1923-1926) VI II volo di Lindbergh (1927) VII Amelia Earhart VIII Dopo Lindbergh IX Morte di Santos-Dumont (1933) X II progresso continua. Comincia la II guerra mondiale (1927-1939) XI La seconda guerra mondiale (1939-1945) XII II secondo dopoguerra (1946-1968) XIII La Luna e il resto (1957-1969) Congedo Glossario Indice analitico dei nomi 271 274 276 280 281 282 290 293 295 296 300 302 305 309 320 333 195 197 200 204 208 212 213 235 238 239 241 249 254 1 L i b ro P r i m o ICARO 2 3 CAPITOLO I iamo nei tempi dei tempi, quando gli Dei si mescolavano agli uomini, si interessavano e si intromettevano nelle loro faccende, partecipavano alla loro vita. Ci troviamo nell'Isola di Creta, nella città di Cnosso, presso la quadrata reggia di Minosse, il saggio figlio di Zeus. È estate. È notte, ma Artemide in pieno fulgore, alta nel cielo, illumina la terra. Cnosso, deserta e silenziosa, è tutta una pezzatura di ingannevoli luci lattee e di tenebre profonde. Vicino la reggia, entro l'alto muro che cerchia il Labirinto, sono chiusi due uomini: un vecchio e un giovane. Il vecchio è Dedalo, l'acuto artefice, l’allievo di Ermes, lo scultore, l'architetto, l'inventore della Meccanica; il giovane è Icaro, suo figlio. Il Re, infuriato contro Dedalo, li ha fatti gettare in quel groviglio di vie dal quale non è possibile districarsi: chi vi entra non trova più la via d'uscita. — Padre, — dice Icaro — siamo perduti, vittime del risentimento del Re e della tua abilità: la perfezione del Labirinto ucciderà il suo costruttore, e io avrò la tua stessa sorte. Le ali che hai approntate per fuggire da Creta resteranno nell'officina, ignorate e inerti. — Non disperare, figlio. Insegnando ad Arianna come guidarsi in questo mortale inviluppo di strade, ho offeso profondamente il Re, e la sua giusta sentenza è inesorabile. Ma abbiamo il favore della Regina, e la figlia di Elio non ci abbandonerà; prevedendo l’ira di Minosse parlai con lei, le dissi come liberarci. Non temere: le ali non resteranno inerti. Si trovano nella caverna sulla cima dell'erta collina che sovrasta il mare d'Egeo. Ermes ci assisterà, e domani, quando il carro di Elio che illumina cielo e terra giungerà al primo terzo della sua corsa, spiccheremo il volo verso le coste dell'Asia Minore, verso la libertà. — È per questo che non hai voluto che tentassimo i sentieri del Labirinto, non hai voluto che ci allontanassimo dall'entrata più di quanto serviva per sottrarci alla vista e alle frecce dei guardiani? — È per questo; e credo che Dedalo, ancora una volta, saprà dominare le sue creazioni. « Dedalo, » pensava il figlio « mio padre! Io non sono Icaro: io sono il figlio di Dedalo. Il genio, la rinomanza, la gloria di mio padre mi schiacciano, mi eclissano: di me non resterà nome. » Padre e figlio, immobili ma desti, sdraiati sull'erba del viottolo, riposano. Le ore trascorrono, il silenzio è profondo. Ed ecco che, lieve, giunge un rumore di passi: qualcuno avanza cautamente. Dedalo e Icaro ascoltano, balzano in piedi. — Salute, Dedalo, — dice una voce. È Echemede, l'ufficiale degli okara, la guardia della Regina. S I CARO 4 È armato di bronzo; indossa l’alto elmo, la corazza; dalla spalla destra sporge l'impugnatura della tagliente spada. Lascia un forte cane che teneva al guinzaglio, e la quasi belva si lancia mugolando di gioia verso i due prigionieri. — Bravo, bravo, Molosso, — dice Icaro accarezzando il suo fedele compagno che lo ha rintracciato fra quelle strade innumerevoli, spezzate e contorte. È un fiero cane da combattimento che la Regina donò a Icaro giovanetto. Un secondo guerriero, atletico, armato, esce dall'ombra: è Kerkios, che ha seguito Echemede e Molosso svolgendo il tortissimo filo di un grosso gomitolo, del quale ha fissato la cima alla porta del Labirinto. Il cane fu di guida nell'entrata, il filo segnerà la via del ritorno. — Salute, Dedalo, — dice Kerkios. — Hai ripetuto, perfezionata, l'astuzia che consigliasti ad Arianna, e della quale il Re, a quanto pare, non ti fu grato! — Salute a voi, grazie a voi, — risponde Dedalo. — Non noi, — afferma Echemede — la Regina devi ringraziare. Ecco due pugnali, prendeteli: state pronti a difendervi, e andiamo. Dobbiamo uscire al più presto da questa trappola mortale. Kerkios, raccogli il filo: noi ti seguiamo. I quattro si mettono in cammino; Icaro regge il suo Molosso che gli lambisce le mani. — Grazie alla Regina, ma grazie anche ai valorosi Echemede e Kerkios, — disse Dedalo. — Temo però, e non vorrei, che scoprendo la nostra fuga, l'ira del Re ricadesse su di voi. — Oh no! — rispose Echemede. — Siamo noi di guardia all'entrata, e nessuno ci controlla. Chi entra nel Labirinto, se non è consigliato dall'acume di Dedalo non ne esce, e solo gli avvoltoi ritrovano il corpo di chi vi muore. Casomai, — soggiunse ridendo — diremo di avervi visto uscirne a volo! — Domani, — ribattè Dedalo — quando il divino Elio sarà a un terzo del suo cammino, osservate il cielo fra bòrea e levante: ci vedrete alti nell'azzurro. I cinque camminano in silenzio, rapidamente. Dedalo e Icaro pensavano di non essersi allontanati dall'entrata; invece quell'intreccio di sentieri ha ingannato anche il suo creatore, e la strada che percorrono pare avvolgersi in se stessa. Ma ecco,improvvisamente, apparire il fossato e il muro e la porta bassa. Kerkios scioglie il capo del filo legato a uno dei cardini. Spingono la porta pesante, escono, la richiudono. Si trovano in una sala collegata alla reggia, scendono una scala, percorrono un lungo corridoio sotterraneo, salgono, aprono i battenti di una seconda porta, sono all'aperto. Dedalo e Icaro abbracciano i loro liberatori. — Molosso tornerà alla Regina, — dice Dedalo — e sarà il segno della nostra liberazione. — Kuparissos è di guardia alla caverna. La divina Tiche vi accompagni, — informa e augura Echemede. Kerkios tace. Dedalo, Icaro e Molosso affrontano la strada vuota. Camminano verso il mare tenendosi nell'ombra. La città pare deserta, e nessuno li assalirà; ma, per ogni evenienza, sono armati, e i denti di Molosso valgono più dei due pugnali. La città si dirada; alle strade subentrano viottoli, alle case orti, prati, frutteti, vigne. Il terreno sale, Artemide non è più alta nel cielo: le ombre sono lunghe. Ed ecco, dolce al cuore dei due fuggiaschi come il più soave dei canti, si sente il rumore del mare. Il terreno sale, diviene ondulato. Dedalo volta decisamente a destra, e si 5 inoltra fra prominenze fronteggiate da uno spiazzo che cade ripido. Dal basso sale il frastuono dei frangenti. — Lode a Zeus, — dice una voce, e un guerriero esce da un folto di cespugli, — lode a Zeus che vi ha portati in salvo. — Sei tu, fedele Kuparissos? Le ali sono intatte? — Sì, Dedalo: nella caverna. Né uomini né bestie le hanno trovate. La notte è calda. Artemide tramonta; il cielo è stellato. L'oriente è ancora oscuro; il mare sonoro è buio. Dedalo e Icaro si gettano a terra; e ora sentono tutto il peso del disagio subito e delle emozioni provate. Sono restati prigionieri un giorno e una notte, e non hanno toccato cibo ne bevanda. — Riposate e rifocillatevi, — dice Kuparissos. — Tu, Dedalo, sei ancora forte, e tu Icaro sei giovane e fortissimo, ma non volerete senza fatica. Eccovi pane fragrante, acqua limpida, carne arrostita, vino più dolce del miele. — E riempie una coppa e la porge a Dedalo. Dedalo si alza in piedi e versa a terra una parte del vino. — Ermes, mio divino, sapiente e paziente maestro, — prega — aiutaci in questa impresa audace, rendi le nostre ali efficienti, dacci cuore per vincere l'altezza e la distanza. « Ermes, » prega Icaro nel suo pensiero « fa' che questa impresa dia luce al mio nome. » Ermes senti. Si allietò della devozione del suo allievo e ne accolse la preghiera, sorrise all'orgoglio del giovane. I tre, seduti a terra, si ristorano, e il cibo e la bevanda rischiarano la mente e rinvigoriscono le membra di Dedalo e di Icaro, e il loro animo ne è fortificato. — Icaro, — disse Dedalo — quando il giorno sarà inoltrato, ed Elio con il suo calore avrà messo in moto l'atmosfera e destato Eolo dal torpore notturno, noi partiremo: andremo verso la costa dell'Asia Minore, verso la salvezza. Io sarò primo e segnerò la strada. Seguì un silenzio, Icaro pensò: « Sì, tu sarai il primo uomo che avrà volato, io sarò il figlio che segui nella scia del padre: di me non resterà nome ». — Icaro, — prosegui Dedalo — ascolta. Le nostre ali saranno efficaci, e ogni battuta varrà a sollevarci e sostenerci, ma il puro volo ad ali battenti sarebbe faticoso e non potrebbe portarci lontano. Quella che ci sosterrà sulle nostre ali, che ci farà raggiungere la meta, sarà l'aria. Prima l'aria spinta in alto dalla brezza di mare che investe la fronte di questa nostra collina; poi l'aria calda che sale. Dovremo, a forza di battiti d'ali, trovarla, entrarvi, e scendervi ad ali ferme, rotando, mentre essa, salendo più rapida della nostra discesa, ci porterà in alto; e noi ci sposteremo con lei. Ma se vedremo che il suo cammino si staccherà da quello che ci saremo prefisso, ne usciremo scendendo rapidamente, diritti davanti a noi, e planando e battendo le ali se necessario, entreremo in un'altra colonna d'aria ascendente che ci sia più propizia. — Ho capito, saliremo scendendo. Ma, padre, dove trovare le colonne d'aria calda che salgono? — Le troveremo sui terreni privi di vegetazione, le troveremo sulle isole sassose. Su di esse saliremo e vinceremo i tratti di mare planando. Cos ì , di isola in isola, raggiungeremo le coste dell'Asia. 6 — Bene, — intervenne Kuparissos. — Descritto dalle parole di Dedalo, il volo diventa una cosa facile; e facile vi sia. Ma c'è ancora tempo perché il carro di Elio riprenda il suo corso: riposate che ne avete bisogno. Io e Molosso faremo buona guardia. Dedalo e Icaro seguono il consiglio, si sdraiano, chiudono gli occhi, e presto cadono in un sereno sonno senza sogni. I nostri eroi dormono profondamente, Kuparissos e Molosso vegliano. La bianca Artemide è tramontata, la volta stellata ruota intorno alla Stella Polare. Il cielo a oriente si rischiara, prima biancastro, poi roseo; le stelle si spengono. Il mare appare, incerto, diviene glauco coronato di spume, ecco le isole: quella che uno stretto braccio di mare separa da Creta, e poi a destra Carpato e Rodi e avanti le Cicladi che sembrano un plotone sparso venuto dall'Asia per accogliere e guidare i fuggiaschi. L'oriente si fa luminoso, da roseo diviene rosso, poi bianco. Il carro di Elio è uscito trionfante dal Fiume Oceano, e il Nume benefico illumina il cielo, risveglia e feconda la terra. — Dedalo, Icaro, è l'ora! — esclama Kuparissos, e Molosso si getta su Icaro e lo invita, come è suo costume, a una lotta scherzosa. — Buono, buono, bravo, — dice e ripete Icaro, svincolandosi dal suo fedele amico. Una fonte è vicina, e padre e figlio liberano gli occhi dalla caligine del sonno, si rinfrescano. Vanno tutti alla caverna, Molosso resta sullo spiazzo, in guardia e a difesa, e tolgono dall'entrata sterpi, frasche, rami, che vi erano stati accumulati per occultarla. Le ali appaiono, intatte. Sono larghe e profonde. Le spoglie di innumerevoli vittime servirono a comporle: dolci aironi, cicogne, cigni hanno dato piume e penne al corpo candido, fiere aquile diedero le nere remiganti. Le ali vengono trasportate all'aperto, alla luce; e Dedalo, con esperte mani e occhio sagace, esamina e tenta la sua opera. Sulla robusta armatura di sottili legni solidi, leggeri ed elastici, l'artefice ha collocato innumerevoli piume e penne, intessendole sapientemente, e le grandi lievi ali fremono e palpitano come cosa viva. La connessione delle penne è tale che all'alzarsi dell'ala l'aria non le fa resistenza, all'abbassarsi si ammassa sotto e la sostiene. Minute legature di filo prendono gli steli di ogni penna, e cera tenace li collega. — Icaro, — dice Dedalo — ascolta. Nel volo dovremo mantenerci fra Poseidone ed Elio: non scendere troppo ne troppo salire. Se scenderemo troppo gli spruzzi del mare bagneranno le penne, le ali diverranno inerti e pesanti, non ci basterà la forza per manovrarle, cadremo. Se saliremo troppo, il calore solare ammollirà la cera, le penne si separeranno, le ali perderanno la loro compattezza, precipiteremo. « Elio immortale, » pensa Icaro « quale misero impiego avrà in me questa mirabile macchina! Prolungherà una vita oscura. Elio divino, poter contemplare la tua faccia! » — Icaro, — riprese Dedalo — ascolta. Le ali vanno applicate al dorso, e queste cinghie ce le uniranno alle spalle, alle braccia, al torace, al ventre, alle cosce. Ma i nostri movimenti rimarranno liberi, e con queste impugnature le potremo manovrare. La loro costruzione è tale che, quando saremo in volo ad ali immobili, distesi nel letto del vento, non sosterremo alcuno sforzo. Per salire dovremo portare le ali in avanti, per scendere portarle indietro; portandone indietro una sola gireremo da quella parte. Non devi temere di tuffarti e di inclinarti. 7 8 E Dedalo scrutò il cielo, osservò il mare, saggiò l'aria. — Bisogna andare, — disse. E con meticolosa cura, con grande amore, vesti d'ali suo figlio. Poi Kuparissos aiutò lui a indossarle. Ora padre e figlio sono ritti, fianco a fianco, ali aperte, di fronte al mare. — Icaro, io ti precedo, — disse Dedalo. — Tu seguimi e ricorda: ne troppo in alto ne troppo in basso; temi gli spruzzi delle onde, temi il calore solare. — Padre, addio, — rispose Icaro. Dedalo prese a correre, ali aperte, verso il mare. A pochi passi dall'orlo della collina batté le ali tre volte sollevandosi, e poi si gettò in giù decisamente, faccia in avanti, corpo teso in alto, ali spiegate. Scese obliquamente, sempre più rapido, ma prima di toccare le onde si sollevò in una falcata, e, compiuto mezzo giro in salita, passò su Icaro e Kuparissos (che tratteneva a stento Molosso anelante), e gridò: — Icaro, vieni! — e continuò a rotare e salire. Avanti a lui, in forma di bianco gabbiano, volava Ermes e lo guidava. Icaro, fermo, ad ali aperte, fissò il Sole. — Elio, — disse — titano divino, padre della mia Regina, tu che generasti la vita e che l'alimenti, accetta queste ali d'uomo che mio padre foggiò e che io ti offro. Fa' che io veda la tua faccia! Ardi le ali, ma rendi immortale il nome dell'uomo che avrà osato giungere fino a tè! Disse, e gridò: — Eccomi padre! — e corse, si alzò, si tuffò nell'abisso, risali. Dedalo lo senti e lo vide, e puntò verso l'Asia. La preghiera del giovane giunse a Elio, ed Elio l'accolse. Chiamò Eolo. — Eolo, — gli disse — la fiamma che Prometeo diede loro illumina gli uomini; le barriere dietro le quali la natura celati suoi misteri, cadono a una a una. Oggi la tua aria porta una soma inusitata: l'uomo vola! Vedi Dedalo: Ermes lo guida, Icaro lo segue. Non ostacolare gli audaci, sii loro benevolo: porta il padre in salvo, solleva il figlio fino a me. Eolo acconsenti, sostenne Icaro e lo portò in alto. Dedalo vide il figlio passargli accanto, superarlo, salire. — Icaro! Icaro! — gridò, — Discendi! Ma la sua voce rimase in basso, senza eco, e si perse. Icaro, in un cielo puro come un limpido cristallo, continuò a salire. Non guardò in basso, non guardò il mare, non guardò la terra: guardò in alto, fissò il Sole. E vide, nel centro dell'azzurro cielo infinito, il globo benefico avvampare di luce sempre più fulgida, e scindersi e separarsi, e distinse i quattro fieri cavalli bianchi galoppanti, Etonte e Piròe, Eoo e Flegonte, tirare il cocchio d'oro; ed eretto sul cocchio a guidarli, vide il Nume, che volse verso di lui la faccia splendente e gli sorrise. Icaro senti il cuore gonfiarglisi di una gioia indicibile e gridò: — Padre! Padre! Ho vinto! La mia fama sorpasserà la tua! Un calore insostenibile lo pervase, la cera divenne molle, le ali persero la compattezza, non lo sostennero più, precipitò. Cadde nel mare che da lui prese il nome di Icario, davanti all'isola che ancor oggi è chiamata Icaria. Dedalo, a sera, discese a Cuma nell'Asia Minore, a nord-est di Focea, avanti a Lesbo. 9 CAPITOLO II COMMENTO AL MITO DI ICARO osì Icaro vinse, e il suo nome divenne più famoso di quello del padre: su cento persone che abbiamo interrogate, mentre venti sapevano chi fosse stato Icaro, cinque soltanto avevano sentito parlare di Dedalo. (E le altre settantacinque? Le altre settantacinque non conoscevano né Dedalo, né Icaro, e ciò nonostante godevano di ottima salute; ma siccome noi non siamo stati fatti a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza, continueremo la nostra escursione nel passato.) Fece bene o fece male, Icaro, a non ascoltare le istruzioni paterne? Fece bene (acquistò fama immortale) e fece male (ci rimise, letteralmente, le penne); e se è giusto che i figli tentino vie nuove (altrimenti il mondo si fermerebbe) è conveniente però che non esagerino nelle novità, perché, altrimenti, se tutti facessero gli Icari, il mondo finirebbe. L'ideale sarebbe che i figli prendessero la via aperta loro dai padri, li superassero ed andassero oltre; ma i padri hanno una testa, i figli ne hanno un'altra, e il mondo continuerà ad andare come sempre è andato. Nel mito di Icaro, cosa dobbiamo vedere oltre all'eterno contrasto fra padri e figli? Esprime solo l'aspirazione al volo, o ci trasmette il ricordo di uri tentativo effettivamente realizzato? Gli antichi possedevano quanto occorre per costruire un aliante: legni leggeri e forti, tele, colla; e gli alianti volano davvero, volano bene, il loro volo, anzi, è il volo vero. Ma gli antichi non volarono: se avessero volato ne sarebbe rimasta una documentazione evidente, sicura, certa; e, soprattutto, avrebbero continuato a volare, non fosse altro a scopi guerreschi. Non illudiamoci: quanto ci è stato tramandato in leggende, immagini artistiche e poetiche, grafiche e verbali, attesta solo l'antichissima perenne aspirazione dell'umanità al volo. Perché, se nella nostra versione del mito di Icaro, Dedalo comprese la meccanica del volo, in realtà gli uomini di infinite generazioni, quantunque avessero costantemente davanti agli occhi infiniti animali che volavano in infiniti modi, ritennero che la parte essenziale del volo consistesse nella battuta delle ali, e che nel volo fosse insito alcun che di sublime che poteva essere ottenuto solo per magia o per intervento divino. C 10 11 Così come Dante (1300) scrisse acutamente e splendidamente:' Quali colombe dal disio chiamate Con Vali aperte e ferme al dolce nido Volan per l'aere ma aggiunse: dal voler portate, e il voler è l'intervento divino. Senza di questo, non si vola. Osservatori del volo non ne mancarono; espertissimi e sagaci furono i falconieri, che distinsero gli uccelli in veleggiatori e remeggiatori; ma il volo veleggiato non persuadeva. Ancora non molti anni or sono qualcuno affermava che le ali, anche quando appaiono aperte e ferme, in realtà battono, battono tanto rapidamente da sembrare che non si muovano affatto! Tali errori di osservazione e di interpretazione oggi paiono assurdi; ma furono reali, e giustificabili in gente che osservava a occhio nudo. Quale è l'esatta andatura del cavallo? In quale ordine posa le zampe nel passo, nel trotto, nel galoppo? Tale quesito appassionò per secoli e destò infinite discussioni e diatribe fra cavalieri, naturalisti, artisti del disegno; e fu risolto... solo con l'avvento della fotografia (seconda metà dell'Ottocento) nei primi tentativi cinematografici. Eppure l’uomo esiste da 600.000 anni, ed ebbe sempre sotto gli occhi il nobile quadrupede, perché, se non proprio il cavallo, il phiohippus, suo immediato progenitore in tutto a lui simile, comparve sulla terra 10.000.000 di anni fa! E se i nostri predecessori non giunsero a vedere chiaramente come si muovono le gambe dei cavalli, come possiamo pretendere che penetrassero il mistero del volo? Per scoprire le leggi del volo, per confinarlo tra i fenomeni naturali, ci volle Leonardo da Vinci (1500) ma i suoi scritti… ne parleremo a suo tempo. Dall'antichità, dal medio evo, dall'era moderna, oltre alla splendida, umana, mediterranea leggenda di Icaro, ci sono giunti, da ogni parte del mondo, innumerevoli racconti e figurazioni di voli fantastici e di inetti tentativi, misti a barlumi di esperimenti e di indagini serie. Tiriamone fuori alcuni dalla grande schiera nella quale si susseguono uomini, angeli, demoni, mostri alati, santi, streghe, incantatori che trascorrono il cielo per virtù propria o su carri trainati dai più vari e stravaganti animali, cavalli volanti (di carne e d'ossa o artificiali), maialini, cassoni e tappeti volanti, ciarlatani e saltimbanchi, visionari e poeti e filosofi, precursori. © 2009 Ascanio Trojani e Francesca atraro - Tui i dirii riservati - Riproduzione vietata L i b ro S e c o n d o Mo n t g o l f i e r CAPITOLO I Montgolfier e Charles a nascita dell'aeronautica ci è stata narrata da un intelligente testimone oculare, Faujas de Saint-Fond; e noi uniformeremo ai suoi scritti il presente capitolo del nostro racconto. 5 giugno 1783 — Ad Annonay ha luogo l'assemblea degli Stati Particolari del Vivarais, territorio attualmente compreso nel dipartimento dell'Ardéche. Gli Stati erano i rappresentanti del clero, della nobiltà e dei comuni. Questi ultimi (il famoso terzo Stato) si separeranno dagli Stati Generali convocati a Versailles il 5 maggio 1789, e il 17 giugno dello stesso anno si costituiranno in Assemblea Nazionale Legislativa, iniziando la Rivoluzione Francese. Ma alla rivoluzione mancano ancora sei anni e, probabilmente, ad Annonay in quel giorno nessuno vi pensa: i signori degli Stati hanno ricevuto dai fratelli Montgolfier l'invito ad assistere alla prima esperienza pubblica della loro macchina volante. Joseph Montgolfier ha quarantatré anni, suo fratello Étienne ne ha cinque di meno. Il primo pare che fosse, fra i due, lo scienziato; il secondo era piuttosto un elegante uomo di mondo; e l'invenzione pare sia da attribuirsi al primo. Ma i due furono cos ì concordi nel dividersene il merito, che non sarebbe logico ne opportuno indagare. Erano figli di Pierre, ricco fabbricante di carta, e avevano quattro sorelle e dieci fratelli, che però non hanno avuto niente a che fare con i palloni ad aria calda. Joseph già da qualche anno pensava (per similitudine con ciò che fanno le nuvole e il fumo) di far ascendere nell'aria un involucro pieno di « gas », e con una serie di esperienze aveva constatato che l'aria, scaldandola, diminuiva di peso; ma la causa dell'alleggerimento non sembra fosse chiara alla sua mente, e pare che lo attribuisse a un fenomeno elettrostatico. (Non deve meravigliare, perché allora l'elettricità furoreggiava: Volta, Galvani, erano viventi.) Fatto è che i Montgolfier gonfiarono le loro « macchine »usando fuoco di paglia mista a lana per produrre un fumo elettrico ». Nel novembre 1782, Joseph esegui un'esperienza ad Avignone, in casa, gonfiando un pallone di una settantina di piedi cubi, in leggero taffettas, che si innalzò fino a toccare il soffitto della stanza. Tornato ad Annonay, continuò le esperienze con il fratello. Costruirono un pallone di notevole volume e lo gonfiarono all'aria aperta: il pallone ruppe le corde che lo reggevano, e si innalzò fino a centocinquanta tese d'altezza. Allora ne costruirono un altro più grande e più forte, e affrontarono l'esperienza pubblica. L 23 giugno 1784 — Pilátre de Rozier e Proust, a bordo della mongolfiera La MarieAntoinette, stabiliscono un durevole primato di distanza (13 leghe) e d'altezza (2.060 tese, circa 4.000 metri) per i palloni ad aria calda. È uno splendido volo sereno. Pilátre stesso ce lo ha descritto. Partono da Versailles; il pallone si solleva lentamente, obliquamente, oscillando. I presenti temono per la propria vita e si allontanano correndo. De Rozier accende il fuoco, e saluta il pubblico, sui visi del quale vede mescolarsi interesse, timore e gioia. Continua a salire, e crede di notare un vento, opposto al precedente, che fa inclinare ancor più la mongolfiera; si accorda allora con Proust per farla andare una decina di minuti orizzontalmente, affinché si equilibri. Poi aumentano la produzione di calore e si innalzano, la grandezza apparente degli oggetti a terra diminuisce, la mongolfiera sembra dominare Parigi e i dintorni. Continuano a salire. Entrano nelle nubi, la terra sparisce, sono al buio, torna la luce, si trovano nuovamente nelle tenebre, sono fra ammassi di nubi bianche; nevica, e la neve si accumula sulla galleria e cade su Versailles e su Parigi, e cadendo si trasforma in pioggia. Vogliono vedere quale sarà l'altezza che la macchina può raggiungere, e agitando il fuoco e sollevando le fascine sulle punte delle forche, portano al massimo la violenza delle fiamme. Sono sopra un ammasso di nubi ghiacciate, anfiteatro selvaggio che occhi umani vedono per la prima volta; il sole splende e rischiara quello spazio infinito: si sentono soli, isolati dal mondo. Restano otto minuti a 11.732 piedi d'altezza, a cinque gradi di temperatura sotto zero; la mancanza di punti di comparazione, fa credere loro di essere immobili. Poi scendono, ripassano le nubi, ecco la terra; dopo l'inverno ecco la primavera, ecco città e villaggi che si fondono, che sembrano castelli contornati da giardini; ecco fiumi che si moltiplicano, che si diramano, che paiono ruscelli, ecco foreste che sembrano boschetti. A quell'altezza il focolare non richiede grandi cure, e i passeggeri, con l'animo rasserenato e aperto dall'immenso spettacolo, possono spostarsi nella galleria. Sulla quale si sentono tranquilli come sul balcone di casa. A de Rozier si è rotta la forca, va a prenderne un'altra nel deposito e si incontra con Proust. I passeggeri delle mongolfiere avevano sempre curato di mantenersi nelle gallerie in posizioni diametralmente opposte per non compromettere l'equilibrio della macchina, considerato precario, ma questo non è stato alterato dallo spostamento; e i due constatano quanto fosse stato esagerato ciò che si era detto, scritto, e temuto. Salgono, scendono a volontà; risalgono, procedono in diagonale, ascoltano le acclamazioni di coloro che assistono al loro passaggio, e rispondono con il megafono. Ecco Luzarches, e gli aeronauti decidono di atterrare. Il popolo accorre per sostenerli nella discesa, gli animali fuggono spaventati; ma la macchina ha troppa velocità e andrebbe a investire le case. I due ravvivano il fuoco e saltano il villaggio; coloro che li aspettavano, restano interdetti. Si presenta la foresta di Compiégne, ma la riserva di combustibile non permette di attraversarla; e de Rozier preferisce finire il viaggio nel primo quadrivio piuttosto che ultimarlo con l'incendio della foresta. © 2009 Ascanio Trojani e Francesca atraro - Tui i dirii riservati - Riproduzione vietata L i b ro Terzo Lilienthal CAPITOLO I Un modello vola (e continua a volare ) iamo nel 1809. L'aeroplano viene concepito in ogni sua parte essenziale, ma la gestazione sarà laboriosa, e prima che esso veda la luce ci vorranno ancora 94 anni; e prima che, dopo aver starnazzato svolazzato e volato, si lana alla conquista del mondo, ce ne vorranno altri 5; in tutto 99. E questi 99 anni saranno intersecati da affermazioni e incidenti aerostatici, e dal nascere e svilupparsi del dirigibile. È sir George Cayley, inglese, che nel 1809 pubblica nella rivista « Nicholson's Joumal of Philosophy » disegni e teoria dell'aeroplano indicandone gli organi essenziali: piani fissi alari a profilo curvo, coda stabilizzatrice, timone di dirczione, timone di quota, carrello per la partenza e per l'atterraggio, diedro laterale che da una certa stabilità automatica, motore a vapore o a esplosione, elica propulsiva. Pare che Cayley non abbia avuto però il concetto della necessità di un forte allungamento alare (rapporto fra l'apertura e la profondità dell'ala) e di un organo di equilibrio laterale. Cayley, che antecedentemente aveva costruito piccoli elicotteri tipo Launoy e Bienvenu e piccoli planatori, nello stesso anno costruisce un planatore capace di portare un uomo, e lo fa provare con successo (la prova non viene ripetuta) dal suo cocchiere. Poi progetta un biplano il corpo del quale è carenato, e un elicottero a quattro rotori (elicottero-aeroplano perché, una volta sollevatesi verticalmente per effetto dei rotori, dovevano entrare in azione eliche propulsive, Ì rotori fermarsi e funzionare da piani, e l'apparecchio spostarsi orizzontalmente). Forse le concezioni di Cayley, se realizzate, non avrebbero volato, nessuno avrebbe saputo pilotarle; forse si sarebbero sfasciate in aria, ma certamente all'inglese spetta il titolo di progenitore dell'aeroplano. Cayley non fu compreso, ai suoi studi non venne data importanza, e non costruì l'aeroplano. Lo costruì invece (modello con motore a vapore) William Samuel Henson, aiutato dallo scienziato John Stringfellow. Henson riprese le idee di Cayley (che furono credute sue) e le brevettò; ma l'aeroplano non volò (1847). Volò invece e continua a volare, e volerà ancora per un pezzo, il più antico e tenace tipo d'aeroplano esistente, quello che tutti abbiamo costruito o, per lo meno, avuto: il modellino con motore a elastico, nato nel 1871, dovuto a Pénaud che lo chiamò planophore . Concepimento dell’Aeroplano S CAPITOLO II Mo u i l l a r d ( 1 8 8 1 ) ell’Africa Settentrionale, sugli aridi terreni arroventati dal sole, non mancano correnti d'aria ascendente, e quell'aria è popolata di grandi volatori che, senza battito d'ali, solcano il eielo, vi ruotano lungamente, ne piombano giù come bolidi. Che dopo lunghe soste a terra, si innalzano faticosamente fino a raggiungere la quota alla quale le loro incomparabili capacità di volo si sciolgono e si distendono. Louis Pierre Mouillard (1834-1897) è un francese emigrato in Egitto, che visse a lungo anche in Algeria. La sua professione (è un commerciante) lo porta a viaggiare, e, avanti allo spettacolo di sicurezza e di serenità che gli offrono quei grandi volatori, la sua latente passione si sviluppa, e lo trasforma nel più attento e sagace osservatore del volo ad ali ferme. Ogni pausa nel lavoro, ogni ritaglio di tempo libero, lo dedica a quella sua passione, e viene conosciuto come « l'uomo che osserva il volo ». E seguita le sue osservazioni; e i suoi appunti, i suoi quaderni, sono un miscuglio di acutezza e di tecnica permeato di poesia. Mouillard è veramente il rivelatore dei segreti, il poeta del volo a vela. Nel 1881 pubblica L'Empire de l'Air (L'Impero dell'Aria). « Quando si vede volare un avvoltoio che pesa otto, dieci chili, ciò che meraviglia, è la solenne impassibilità di quel volo... Quelle grandi ali battono raramente: può fare dieci chilometri per riuscire a posarsi dolcemente, può fare dieci miglia per riuscire ad avanzare di una; pare che abbia giurato di non battere mai le ali... Nulla è più bello dell'andatura di questo enorme uccello; non se ne può vedere uno in aria senza fermarsi a contemplare tanta maestà di portamento. Sono cerchi immensi descritti senza sussulti, senza arresti. E poi, nel volo rettilineo, si muove con una stabilità imponente: non oscilla ne a destra ne a sinistra, ne in alto ne in basso. Penetra... » La partenza e l'atterraggio sono per gli uccelli (come lo saranno per gli aeroplani), manovre delicate: « Per i piccoli uccelli, partire è la cosa più facile, a essi basta un salto per involarsi; ma la maggior parte dei grandi trampolieri e gli avvoltoi partono correndo - come faranno gli aeroplani! - e battendo le ali fino a librarsi... Gli uccelli da preda dispongono di maggiori risorse: da terra s'involano con un salto, dall'alto si lasciano cadere ad ali spiegate... » N « Vi sono uccelli, potentissimi volatori, che hanno bisogno di grande spazio per staccarsi da terra: il pellicano sarebbe perfettamente prigioniero in un cortile; le procellarie sono in capaci di involarsi se non hanno avanti a loro un pendio per prendere la rincorsa: in mezzo a un prato sono prigioniere... Atterrare è lo spavento della razza alata: per i grossi uccelli è una grande preoccupazione, più fortunati sono gli uccelli acquatici perché possono posarsi su un elemento cedevole... Nel volo degli uccelli planatori, l'innalzamento è prodotto dall'accorto impiego della forza del vento, e la direzione dall'abilità; di modo che, con vento medio, un aeroplano sprovvisto di qualsiasi mezzo di sollevamento può alzarsi in aria e dirigersi, anche contro vento. L'uomo può, con una superficie rigida congegnata per poterla dirigere, ripetere gli esercizi di salita e di direzione compiuti dagli uccelli planatori; e non dovrà impiegare altra forza che quella necessaria al pilotaggio ». È l'esatta descrizione dell'aliante, divinato trentotto anni prima della sua realizzazione! L'Impero dell'Aria ha più risonanza all'estero che in Francia, e la gloria di Mouillard sarà essenzialmente una gloria postuma. Morto lui, quel libro diverrà la bibbia degli aviatori. Mouillard è in corrispondenza con Chanute, e questi deposita un brevetto anche a nome di lui. Mouillard escogita, per eseguire la virata, il gauchissement (la torsione delle ali), e forse anche l'accoppiamento di questo e del timone di dirczione. Ed è probabile che Chanute abbia informato di quella idea i Wright. (Uno dei brevetti dei fratelli Wright, quello che più fieramente rivendicheranno, riguarda appunto il gauchissement e il suo accoppiamento con il timone di dirczione.) Mouillard è povero e non può realizzare un apparecchio che lo porti in aria. Costruisce dei planatori equilibratissimi, il più grande dei quali (1896, l'inventore ha 62 anni, è di salute cagionevole, e morirà un anno dopo) pesa, zavorrato, 105 chili, ma non è ancora sufficiente a portare un uomo. Nelle prove di volo avanza, con una sicurezza e una stabilità stupefacenti, contro un vento di 20 metri al secondo. Mouillard muore povero e solo. La famiglia non ne rivendica l'eredità, e il console di Francia in Egitto raccoglie i suoi manoscritti, parte dei quali compongono Le voi sans battement (II volo senza battito - d'ali) pubblicato postumo. Il libro si divide in tre parti: studi di uccelli, apparecchi aerei, conversazioni. E finisce: «Non vorrei lasciare il lettore senza fargli i miei addii, perché la mia missione è finita: io non ho altro da dire. Un problema come quello da me affrontato consuma la vita di un uomo. Mi ritiro dalla lotta rattristato di non essere stato creduto. Ho dovuto lottare contro l'aerostato, contro le ali battenti, contro l'impiego intempestivo delle matematiche. L'ho fatto con virulenza, ma è contro le idee che mi sono battuto, non contro i loro sostenitori... ». CAPITOLO IX Alberto Santos-Dumont dirigibilista (1898-1903) lberto Santos-Dumont, settimo figlio di Henrique Dumonte di Francisca dos Santos, nacque in Brasile a Cambacu (nell'attuale Stato di Minas Gerais) il 20 luglio 1873. II padre, di famiglia oriunda francese, era ingegnere laureato dalla École Centrale des Arts et Métiers di Parigi. Lavorando successivamente come ingegnere, appaltatore di opere pubbliche, fazendeiro, creò una grande coltivazione di caffè (cinque milioni di piante) nel territorio (allora il Brasile era un impero) di São Paulo. Rimasto semiparalizzato a seguito di una caduta, vendette la fazenda e riparti fra i figli i due terzi della sua fortuna, che ammontava a dodici milioni di contos di reis, equivalenti, forse, a centocinquanta milioni degli euro di oggi. Da quanto sopra si può dedurre la consistenza del patrimonio di Santos-Dumont, senza dubbio ricco, ma non della ricchezza del petroliere Deutsch de la Meurthe né di quella dell'assicuratore Archdeacon. Spese senza risparmio per l'aeronautica, per l'aviazione e per le altre sue creazioni meccaniche. Quelle esperienze costavano molto; quando Blériot ottenne i primi risultati dai suoi monoplani, aveva già speso l'equivalente di più di quindici milioni di euro d’oggi. Santos, elegante uomo di società, mantenne però un tenore di vita relativamente modesto, e arrivò talvolta a mancare di liquido, e dovette chiederne alla parentela. Da ragazzo, appassionato di meccanica, divoratore dei libri di Verne, sognatore del volo, ebbe modo di sbizzarrirsi con i macchinari e le locomobili della fazenda paterna; a dodici anni dirigeva le locomotive Baldwin sulle 60 miglia di strada ferrata che la servivano. Durante un viaggio a Parigi vide per la prima volta un motore a scoppio (potenza 1 HP!) e rimase affascinato dal suo funzionamento, impressionato dalla sua leggerezza. Ma ebbe una delusione: si aspettava di vedere il cielo popolato di dirigibili; invece, neppure uno. Dopo le esperienze di Giffard, Tissandier e Renard, nessuno vi credeva più. E il giovane Santos, si promise di inventarlo e di costruirlo lui un dirigibile, sul tipo di quello di Giffard. Colpito dal fervore di vita della Ville Lumiére espresse al padre il desiderio di studiarvi e di vivervi; e il padre, forse presago della sua prossima fine, e delle fulgide future A affermazioni del figlio, acconsentì. Lo raccomandò a parenti e amici di Parigi e, rientrati che furono in Brasile, con atto legale lo emancipò. Alberto aveva 18 anni. Trasferitosi in Europa, Santos-Dumont studiò, ma privatamente e solo le materie che lo interessavano; e, fornito di mezzi, dipendendo solo da se stesso, imboccò la strada segnalatagli dal destino. ' La sua passione per la meccanica trovò sfogo dapprima nell'automobile (una Peugeot di 3,5 HP), poi nel triciclo, che era la motocicletta di quei tempi. Nel 1888, a quindici anni, aveva assistito a São Paulo a una ascensione aerostatica seguita da discesa in paracadute. Ne aveva riportato una grande impressione, ed era rimasto latente in lui il desiderio di volare. A Parigi si mise in contatto con aeronauti professionisti, che pretendevano, per un'ascensione, compensi esosi; finché trovò Lachambre, aeronauta famoso, costruttore del grande aerostato (5.000 metri cubi) di Andrée 1, che si dimostrò ragionevole; e Santos poté compiere la prima ascensione libera su uno sferico di 750 metri cubi, pilotato dal nipote e socio di Lachambre, Machuron. Stettero in aria due ore, raggiunsero i 3.000 metri di quota, percorsero 100 chilometri. All'atterraggio Santos-Dumont era incantato; e ordinò a Lachambre un suo pallone personale, di suo progetto. Mentre lo costruivano compì numerose ascensioni, come passeggero e come pilota, portando passeggeri e solo. Il Brasil fu uno dei più piccoli sferici che siano stati mai costruiti: 113 metri cubi di volume; peso dell’involucro in seta del Giappone verniciata, 14 chili; la rete pesava un chilo e ottocento grammi; la navicella 6 chili; il guide rope lungo 100 metri, 8 chili; l'ancora, allora considerata accessorio indispensabile, era un semplice uncino pesante 3 chili. La richiesta di costruirlo destò in Lachambre perplessità: gli sembrava di favorire un suicidio; ma le ragioni di Santos lo convinsero. Costruito che fu, l'aerostato venne accolto con ilarità e scetticismo: secondo gli esperti non avrebbe potuto volare; invece volò e volò bene. Ma vi è un perché: SantosDumont pesava 50 chili vestito, con le scarpe (che portava alte e pesanti) e con i guanti (che portava grossi e spessi, senza perdere l'agilità delle mani che aveva grandissima; perché Santos fu anche un abile artefice). Era alto in proporzione. Il Brasil volò, le petit Santos e il suo minuscolo aerostato furono subito popolari: i parigini dicevano che quando viaggiava in treno, si portava il pallone nella valigia. Divenne appassionato aeronauta; deve anzi essere considerato uno dei migliori aeronauti che siano esistiti. Apprezzò grandemente le emozioni e anche, dopo che erano passati, i pericoli (e ne corse parecchi e gravi) del volo libero; ma le sue ascensioni furono soprattutto di studio per la realizzazione del dirigibile, perché era convinto di non poter divenire buon pilota di dirigibile senza essere già buon pilota di sferico. Prima di volare in dirigibile, compì una trentina di ascensioni libere sul Brasil e su altri aerostati. Due scopi (oltre la dirigibilità) aveva in mente: abolire l'impiego della zavorra, abolire il gettito di gas; e si accinse a realizzare il pallone dirigibile con animo nuovo, cominciando da zero, quasi senza tener conto dei lavori dei suoi predecessori. Fu rapido: si 1 Augusto Salomone Andrée, con Nils Strindberg e Knut H. F. Fraenkel, partì nel 1897 dalle Spitsbergen contando su un vento favorevole che lo portasse al Polo Nord. Trentatré anni dopo furono trovati, nell'Isola Bianca, i testi della spedizione, le salme degli esploratori, i diari. può dire che le sue realizzazioni non seguirono, accompagnarono le sue concezioni, tanto breve era lo spazio di tempo che intercorreva fra ideazioni ed esperienze. Il suo primo dirigibile, il Santos-Dumont N° 1, viene gonfiato a Parigi, al Giardino d'Acclimatazione, il 18 settembre 1898. Santos ha scelto quel luogo perché vi è un pallone frenato con un impianto di produzione d'idrogeno del quale può usufruire (a pagamento). Non esiste hangar; tutto si svolge all'aria aperta. Il dirigibile è piccolissimo (180 metri cubi) e semplice. Un lungo involucro cilindrico terminante con due punte, costruito in seta del Giappone (la stessa del Brasil che pesa, prima di essere verniciata, 30 grammi al metro quadrato). Appesa molto sotto, l'involucro porta una cesta di vimini che contiene appena il pilota; sulla faccia posteriore della cesta è applicato il motore di 3,5 HP (che ha ottenuti dal motore — a un cilindro verticale — di un triciclo, sovrapponendo al primo un secondo cilindro) con le sue bobine d'accensione; sulla faccia anteriore sono il serbatoio della benzina e il carburatore; l'elica è calettata all'asse motore. Il timone di direzione è in alto, a poppa, incernierato su una delle corde di sospensione. Due sacchi di zavorra pendono dall'involucro, quasi alle estremità, più bassi della navicella, alla quale sono collegati da sagole; tirando a sé l’uno o l'altro sacco, il pilota sposta il baricentro dell'aeronave, e la fa inclinare verso Paltò o verso il basso, e, sotto la spinta dell'elica la fa salire e scendere: è il « movimento diagonale », come lo definisce Santos. L’involucro è chiuso ermeticamente, e una valvola automatica garantisce che la pressione non raggiunga valori pericolosi. Per compensare le contrazioni e le perdite di gas (è essenziale che l'involucro, per non deformarsi, sia mantenuto in pressione) il pilota dispone di una pompa a mano. A bordo vi sono zavorra, guide rope (Santos ama molto navigare sul cavo) e ancora, l’inventore ha fatto girare a terra il motore e ha misurato la spinta dell'elica: a 1.200 giri ha ottenuto 11,5 chili, e ne ha dedotto che il dirigibile svilupperà una velocità di 8 metri al secondo, corrispondente a 28,8 chilometri all’ora. Gli esperti criticavano acerbamente il progetto di Santos. Piazzare un motore a scoppio sotto l'involucro pieno di gas era una follia: il motore, privo di appoggio sul terreno, avrebbe vibrato talmente che tutto si sarebbe scassato; e le fiamme dello scarico avrebbero incendiato l'involucro. Che il timore delle vibrazioni fosse infondato, Santos l’aveva dimostrato praticamente. Con il suo triciclo, azionato dal motore destinato al N° 1, e che su strada vibrava maledettamente, era andato una mattina, presto, al Bois de Boulogne. Lo accompagnava un meccanico, e i due, gettata una corda a cavallo del ramo basso e quasi orizzontale di un grosso albero, avevano issato e sospeso in aria il triciclo; quindi Santos era salito nel veicolo e aveva messo in marcia il motore, che aveva preso a girare con estrema dolcezza. Abolito il contatto con il terreno, le vibrazioni erano scomparse! Per la seconda obiezione si sentiva tranquillo: non avrebbe fatto la fine di Wolfert. L’incendio dell'idrogeno per causa del motore era impossibile: il gas avrebbe potuto sfuggire da un foro dell’involucro o da una valvola, e a dirigibile fermo sarebbe salito in alto, a dirigibile in moto sarebbe sfuggito orizzontalmente e all'indietro; ma il motore era posto in basso e avanti alla valvola. Credeva possibile, invece, un ritorno di fiamma e un incendio del motore e del serbatoio della benzina. (E infatti lo ebbe al N° 9, al di sopra dell'isola di Puteaux della Senna, e lo spense con il suo cappello panama.) Quello che temeva era il cattivo funzionamento della valvola; l’involucro (tanto leggero: 30 chili verniciato!) era sempre in pressione, e se la valvola si fosse incantata sarebbe scoppiato. Dopo lo scoppio si sarebbe certamente incendiato, ma un incendio dopo lo scoppio non avrebbe avuto importanza. Al gonfiamento segui immediatamente il primo tentativo. Conformandosi controvoglia al consiglio degli aeronauti di professione, Santos parti con il vento in poppa. Il dirigibile non si sollevò abbastanza e finì contro gli alberi dell'estremità opposta del campo, rimanendo danneggiato in modo non grave. Rimessolo prontamente in ordine, il 20 settembre Santos-Dumont ripeté la prova, partendo questa volta (fra le disapprovazioni dei presenti) contro vento. Si innalzò prontamente e, pare incredibile, quell’embrione di dirigibile acquistò velocità e prese a evoluire in tutti i sensi. Fino a che si mantenne sotto i 150 metri tutto andò bene, ma Santos, inebriato dal successo, si fece prendere la mano dall'entusiasmo e sali a 400 metri. Da quell'altezza vedeva tutta Parigi, vedeva il campo di corse di Longchamps verso il quale si diresse per compiervi sopra le sue evoluzioni. Ma, iniziata la discesa, il gas cominciò a contrarsi, la pompa non fu sufficiente a compensare la diminuzione di volume, l'involucro andò sgonfiandosi, e piegandosi in alto «come un temperino». La tensione delle corde divenne ineguale, quelle esterne, più tese, stavano per strappare l'involucro. La discesa sempre più rapida si stava tramutando in caduta: il dirigibile precipitava sul margine del prato di Bagatelle. In basso, dei ragazzi giocavano con un aquilone: — Afferrate la corda, — gridò loro Santos (il guide rope già andava posandosi sulla terra) — e correte contro vento! Quelli eseguirono la manovra alla perfezione, e il pallone toccò terra dolcemente. Santos-Dumont non si mostrò impressionato. — Partito in dirigibile, ritorno in cervo volante, — commentò. Santos-Dumont, nonostante le peripezie della prima ascensione, ne era rimasto inebriato: aveva vinto. Aveva navigato nell'aria, aveva compiuto le evoluzioni che aveva volute, inclinando il dirigibile era salito e disceso senza gettare zavorra, senza far uscire gas. E mise mano al Santos-Dumont N° 2. È come il N° 1, ma il suo diametro, più grande, porta il volume a 200 metri cubi; motore, navicella, elica, sono le stesse. Il timone di direzione è applicato alla punta di poppa dell'involucro, e per l'alimentazione del ballonnet la pompa a mano è stata sostituita da un ventilatore azionato dal motore. L'11 maggio 1899 il N° 2 viene gonfiato al Giardino d'Acclimatazione, e durante il gonfiamento comincia a piovere. Santos è perplesso. Che fare? Sgonfiare l’involucro e perdere idrogeno e fatica, o tentare l'ascensione con l'involucro bagnato e appesantito? Decide di tentare, ma quando è in aria la pioggia aumenta, l'idrogeno raffreddato si contrae, il ventilatore non riesce a mantenere l'involucro in forma. L'involucro si piega come, anzi peggio del N° 1, e Santos non ha ancora pensato alla manovra da fare, che un colpo di vento lo getta contro gli alberi e mette il dirigibile fuori uso. Il 13 novembre 1899 parte da Vaugirard il Santos-Dumont N°3. Santos ha deciso di impedire il ripetersi del piegamento in alto dell'involucro, e lo fa di forma tozza: lungo 20 metri, 7,50 di diametro, volume 500 metri cubi. Navicella, motore e tutto il resto sono gli stessi dei dirigibili precedenti; il timone di direzione, molto grande, è disposto come nel N°1 su una delle funi di sospensione. La sospensione è irrigidita da una lunga asta orizzontale di bambù posta fra involucro e navicella: le corde dell'involucro vanno al bambù, e dal bambù partono quelle che sopportano la navicella. Non più ballonnet né ventilatore: il bambù e la forma tozza saranno sufficienti ad assicurare l'indeformabilità dell'involucro. Non soddisfatto delle prestazioni del generatore di idrogeno del Giardino di Acclimatazione, questa volta Santos ha impiegato il gas illuminante. Da Vaugirard va sul Campo di Marte. Li sopra descrive cerchi, fila in linea retta, sale in diagonale e in diagonale discende a forza di motore e si esercita nell'impiego dei pesi mobili. È esultante: sta realizzando quello che deve essere il canone dell'aeronautica dirigibile: «scendere senza sacrificare gas, salire senza sacrificare zavorra». Contorna, a prudente distanza, la Torre Eiffel, e si dirige al Parco dei Principi che è un bel luogo aperto, adatto alle sue evoluzioni. Drizza poi la prua sul campo di Bagatelle, dove atterra in ricordo della movimentata fine del N° 1. Durante il volo stima che la velocità propria del dirigibile è di 25 chilometri all'ora. L'Aéro Club aveva acquistato un terreno a Saint-Cloud e Santos vi fa costruire, su suo disegno, un hangar di metri 30 in lunghezza x 7 in larghezza x 11 d'altezza. Mentre si erige l'hangar vola ancora più volte felicemente con il N° 3, fino a che, in un volo, perde il timone. Non fa riparare il dirigibile: il motore è troppo debole, l'involucro pesante. Ora ha un hangar, ha una sua installazione per la produzione dell'idrogeno; costruirà un nuovo dirigibile e potrà compiervi esperienze ripetute e sistematiche. Santos-Dumont chiama il suo hangar « aerodromo ». Il Santos-Dumont N°4 è lungo 29 metri, il diametro massimo è 5,10 metri, il volume 420 metri cubi. Non è sfilato come i N°1 e N°2, non è tozzo come il N°3. Ballonnet e ventilatore, abbandonati nel N° 3, sono tornati; il timone è, come nel N° 2, sulla punta di poppa dell'involucro. Il bambù del N° 3 si è allungato, è il 42,596 della lunghezza. dell'involucro, è diventato una vera chiglia che a prua porta l'elica, al centro il motore a due cilindri, di 7 HP, gli accessori del motore, il posto del pilota costituito da un telaio di bicicletta: Santos siede sul sellino, con il manubrio aziona il timone di direzione, con i pedali mette in moto il motore. L'elica, di grande diametro, ruota a cento giri per minuto, e, al punto fisso, da una trazione di trenta chilogrammi. Il N°4 vola la prima volta nell'agosto 1900, e in agosto e in settembre è in aria quasi tutti i giorni: lo spettacolo di quell'uomo che correva per il cielo a cavallo di un palo, deve essere stato impressionante. Santos-Dumont si era allenato a vincere la vertigine e a operare sul vuoto in condizioni di precaria stabilità. A tale scopo era arrivato al punto di mangiare a una tavola sospesa con quattro funi al soffitto della stanza da pranzo, seduto su una sedia ugualmente sospesa, alla quale accedeva su trampoli; il cameriere lo serviva tenendo a braccia tese i piatti alti sopra la testa. Tale fatto lo fece, da qualche spirito saggio, classificare tra i matti; ma Santos non era matto. La preoccupazione di vincere la temuta vertigine dell'altezza, era legittima in chi si apprestava a essere il primo a volare su macchine che non avevano mai volato. A Parigi è aperta la grande esposizione mondiale, e vi si tiene un congresso internazionale di aeronautica. Il 19 settembre 1900 i congressisti visitano l'« aerodromo » di Santos-Dumont, che, non potendo compiere un'ascensione normale perché il timone del N°4 è guasto, dimostra quanto sia efficace l'elica azionata da un motore a scoppio. Qualche giorno dopo fa assistere il professor Langley, uno dei più eminenti congressisti, a una prova di volo. I risultati delle prove lo convinsero a raddoppiare la potenza del motore, e scelse un quattro cilindri raffreddato ad aria, potenza 14 HP. Ma l'aumento di peso lo obbligò ad aumentare il volume dell'involucro, ciò che fece tagliando questo a metà lunghezza e inserendovi una parte cilindrica. Il dirigibile divenne, così, lungo 33 metri, e non entrava più nell'hangar che dovette essere allungato di 4 metri. Santos utilizzò la pausa forzata dei voli per fare prove di trazione a punto fisso, e constatò che portando la velocità dell’elica a 140 giri, otteneva una trazione di 55 chili. Ma il vento freddo del propulsore gli procurò una polmonite; guarito che fu, andò a passare la convalescenza a Nizza. Qui, pensando al dirigibile, decise di sostituire il pesante palo di bambù (che era tenuto rigido da una quantità di puntoni e tiranti) con una trave armata a sezione triangolare, con i correnti, montanti, traverse di abete, i pezzi d'unione in alluminio, triangolata da fili di acciaio armonico (cordes a piano, corde di pianoforte); e se la costruì lui stesso a Nizza: lunga 18 metri, pesava 41 chili. Adottati i fili d'acciaio per la trave, gli venne l'idea di usarli anche per la sospensione in sostituzione delle corde di canapa (allungabili e igroscopiche) e adottò fili di 8/10, guadagnando in peso, e soprattutto in penetrazione nell'aria, ossia in velocità. Il N°4 si trasformò così nel Santos-Dumont N°5: il motore era al centro della trave, l'elica era tornata indietro (avanti disturbava la manovra del guide rope); il pilota era molto in avanti, in piedi in una cesta di vimini. Il timone aveva lasciato la punta di poppa dell'involucro ed era ridisceso sulla sospensione, i pesi mobili potevano venire appesi a un anello di fune che correva lungo e sotto la trave e spostati facilmente; ma in generale, per inclinare il dirigibile era sufficiente tirare indietro o mollare in avanti il guide rope che pendeva sotto. Infine, Santos sostituì alla sabbia di zavorra, acqua. Prima ancora che il N° 5 volasse, la Commissione Scientifica dell'Aéro Club assegnò a Santos il «Premio di Incoraggiamento», fondato da Deutsch de la Meurthe (il petroliere fomentava lo sviluppo del motore a scoppio in tutte le sue applicazioni: stava lanciando la motonaphta, uno dei tanti nomi che furono dati alla benzina), consistente in un anno di interessi di un capitale di 100.000 franchi. Erano 4.000 franchi che Santos non riscosse, e li destinò a chi (lui stesso escluso), partito da Saint-Cloud avesse per primo contornato la Torre Eiffel e fosse tornato al punto di partenza senza aver toccato terra. Ciò senza tempo massimo, senza limiti di data, senza commissari di corsa (sarebbe bastata la testimonianza dei giornalisti, che non sarebbero mancati!); ma nessuno concorse, e i 4.000 franchi non uscirono dalle casse del Club. Deutsch de la Meurthe aveva, nella primavera del 1900, fondato un premio analogo, ma di 125.000 franchi e con clausole più rigorose. Bisognava avvertire la Commissione Scientifica del Club 24 ore prima, ciò che impegnava moralmente il concorrente (i voli avvenivano preferibilmente la mattina presto, Saint-Cloud era fuori mano, e si ha riluttanza a fare alzare all’alba degli illustri personaggi, per poi rimandarli a casa delusi) e gli impediva di utilizzare improvvise situazioni metereologiche favorevoli. Bisognava compiere il circuito in mezz'ora, e ciò richiedeva una velocità, all’andata e al ritorno, di 25 chilometri all'ora. I 25 chilometri all'ora, Santos li aveva realizzati con il N° 4, ma non mantenuti per molto tempo; adesso, con il N° 5, era convinto di poter vincere la prova, e ci teneva a farlo, anche per dimostrare che lui stesso non aveva istituito un premio impossibile da guadagnare. Alle 4:30 del mattino del 12 luglio 1901 portò il dirigibile da Saint-Cloud al campo dell'ippodromo di Longchamps, e ne fece dieci volte il giro, fermandosi ogni volta a un punto prestabilito, percorrendo cosi 35 chilometri. Poi puntò su Puteaux (distante tre chilometri) dove arrivò in 9 minuti, tornò a Longchamps, e si diresse verso la Torre Eiffel. A 200 metri dal campo di Marte uno dei cavi di comando del timone si ruppe, e Santos discese disinvoltamente nei giardini del Trocadero. Accorse gente. Fra gli altri, due operai: — Vi serve nulla? — domandarono. — Mi servirebbe una scala. La scala arrivò, i due la tennero diritta mentre Santos, saliti una ventina di gradini, riparava il cavo. Santos riparti e prese quota salendo, come lui diceva, con «movimento diagonale», cioè a forza di motore, con traiettoria inclinata verso Paltò, effettuando quella che noi chiameremo poi «salita dinamica», distinguendola dalla «salita statica», effettuata a dirigibile leggero, verticalmente, per solo galleggiamento. Compì una larga curva avente per centro la Torre Eiffel, si diresse su Longchamps dove scese a fare una chiacchierata, e poi tomo a Saint-Cloud, dove ricoverò il dirigibile senza aver perso, in tutto quel girovagare, un solo metro cubo di gas. E convocò per il giorno dopo la Commissione del Premio Deutsch. Alle 6:41 della mattina seguente, parti. Contornò la Torre Eiffel, e tornò a SaintCloud lottando contro un forte vento contrario. Quando fu sulla verticale del punto di partenza, erano le 7:21: era in ritardo di 10'! In quel momento il motore si arrestò, e il dirigibile fu preso dal vento, che lo portò ad impigliarsi nei rami del più alto ippocastano del parco Rotschild. Santos rimase incolume lassù, nel suo cesto. Mentre, sceso a terra, è occupato nel recupero del dirigibile, la contessa d’Eù (la principessa Isabel, figlia dell'Imperatore don Pedro II del Brasile, la quale, come reggente del padre - che se ne era andato diplomaticamente in Europa - abolì nel 1888 la schiavitù e si giocò la corona) gli invia un pranzo freddo e lo invita (la sua residenza non è lontana) a visitarla. Il giorno dopo gli manda una medaglia d'oro di San Benedetto (che protegge da incidenti e cadute) e Santos-Dumont la mette a una catenella d'oro che porterà sempre al polso (nonostante le critiche: a quei tempi gli uomini non portavano braccialetti di nessun genere) attribuendole la sua costante incolumità attraverso una cos ì movimentata e fortunosa carriera. Rimessa in ordine l'aeronave, la mattina dell'8 agosto, Santos-Dumont ripete il tentativo. Vento in poppa, ritto nel suo cesto, raggiunge la torre in 9 minuti, la doppia. I tetti, le terrazze, le rive della Senna, sono gremiti di folla applaudente. Santos risponde agitando la paglietta. Ma già prima di raggiungere la Torre si è accorto che una delle valvole automatiche perde: se non fosse stato in gara sarebbe sceso immediatamente, ma la velocità è buona, e vuole vincere. Sulla via del ritorno l'involucro si va vuotando, sopra le fortificazioni presso la Muette i fili della sospensione sono così arcuati che quelli di poppa si impigliano nell'elica e Pelica li taglia. Santos ferma il motore, e il vento riporta il dirigibile verso la Torre. È uscito tanto gas che il N° 5 cade. Santos avrebbe potuto arrestare la caduta gettando zavorra, ma sarebbe finito contro la Torre. Preferisce lasciarlo andare. Ciò che lo preoccupa di più è l'inclinazione del dirigibile che continua a sollevare la prua, dove affluisce il gas mentre la poppa si vuota e va sventolando. (Il ventilatore, a motore fermo non poteva compensare le perdite; ma, a parte ciò, il ballonnet non aveva funzionato regolarmente. Il perché, Santos lo seppe poi: non si era aspettato, a collocare il ballonnet nell'involucro, che la vernice si fosse seccata, e alcune parti si erano incollate fra di loro.) La tensione dei fili di sospensione non è più uguale, quelli di prua sono più caricati, se l'inclinazione aumenta si romperanno a uno a uno! Santos spera di andare a finire sul terrapieno della Senna; ma, mentre nel movimento di discesa obliqua all'indietro elica e trave col motore e con la navicella hanno già sorpassato gli edifici del Trocadero, la parte anteriore dell'involucro batte contro il tetto e scoppia come un sacco di carta pieno d'aria. La trave rimane quasi verticale, appoggiata a una parete del cortile, l'involucro, sacco vuoto e lacerato, pende a pezzi dal tetto. Santos incolume, paglietta in testa, fazzoletto bianco fuori dal taschino della giacca, si arrampica lungo la trave, e va a sedere sull'esterno di un'alta finestrella (con inferriata). I pompieri di Passy arrivano al galoppo suonando a distesa; ma non trovano l'incendio temuto: trovano un Santos sorridente che, liberato dall'incomoda posizione, dirigerà il recupero del materiale. — Non ho mai visto nulla di simile, signor Santos, — gli dichiara il comandante, complimentandolo. — Niente paura: ritenterò. — Risponde lui. — E finirò col vincere. Quello fu uno (forse il più grave) dei tanti pericoli corsi da Santos; ma non era suo destino perire in un incidente aeronautico. Rientrato a Saint-Cloud impartisce disposizioni per la costruzione di un nuovo dirigibile, e la sera la passa, allegro e inappuntabilmente vestito, «Chez Maxim», il caffè alla moda. Coraggioso, elegante, generoso, in buona armonia con la stampa, è veramente l'idolo di Parigi. È pur sempre uno straniero, però, e la sua grande popolarità secca a molti; i critici non mancano. II colonnello Renard, quello del La trance, il luminare e despota dell'areonautica militare francese, afferma che il regolamento del « Premio Deutsch » è troppo blando e che lui, previa autorizzazione dei superiori, potrebbe guadagnarlo con il dirigibile del 1884. Forse è in buona fede, ma certamente esagera. L'intervento di Renard, a ogni modo, da i suoi frutti, e le condizioni del premio vengono rese più difficili: i 30' di tempo per il percorso decorreranno dall'istante nel quale la fune del dirigibile verrà mollata, a quello nel quale verrà riafferrata al ritorno. Santos-Dumont, che fino allora aveva volato con a poppa la bandiera brasiliana, risponde aggiungendo alla bandiera del suo paese, quella della Francia. In 22 giorni il Santos-Dumont N° 6 viene completato e gonfiato: è simile al N° 5. Lungo 33 metri, con 6 metri di diametro, 630 metri cubi di volume, motore a 4 cilindri, 12 HP, raffreddato ad acqua. Il ballonnet assume maggiore importanza: è di 60 metri cubi; e l'insieme delle valvole, automatiche e comandate, di gas e d'aria (in caso di pressione eccessiva si apriranno prima quelle del ballonnet, poi quelle della camera gas), viene curato particolarmente. I/incidente dell'8 agosto non si deve ripetere! Vola. Il 6 settembre Santos subisce un piccolo incidente, il 15 riprende le prove, il 19 va contro un albero del Bois de Boulogne. Incidenti del genere non lo impressionano: provengono dal volare a bassa quota, ma volando ad alta quota incorrerebbe in peggiori! Il 19 ottobre, alle 14:42 parte per il « Premio Deutsch ». Non si creda che non si rendesse conto di quanto fosse pericoloso girare attorno alla Torre: sapeva che sarebbe bastato urtarvi perché l'involucro esplodesse e lui precipitasse. Il tempo pareva sfavorevole, tanto che di venticinque mèmbri della Commissione, ne erano presenti solo cinque. all'altezza della Torre Eiffel soffiava un vento di sud-est di 6 metri al secondo. All’andata il vento è in favore, Santos si mantiene 10 metri più alto della Torre e gira intorno al parafulmine alla distanza di 50 metri. Dalla partenza sono passati 9'. Ha lasciato dietro di sé la Torre, di forse 500 metri, quando il motore prende a funzionare male. Santos abbandona il timone, e va a regolare carburazione e accensione. È sul Bois de Boulogne; il dirigibile, come avviene agli aerostati sulle zone alberate, si abbassa, mentre il motore scende di giri. Santos sposta indietro guide rope e pesi mobili, il dirigibile si impenna e sale. È sul campo di corse di Auteil, la folla applaude, il motore prende a girare a tutta velocità e il dirigibile si impenna ancora di più, la folla lancia grida di terrore, Santos è tranquillo: sotto di sé ha gli alberi del bosco. Sposta guide rope e pesi e mette il dirigibile orizzontale, è a 150 metri d'altezza ma non ha tempo di abbassarsi. Passa a tutta velocità su Longchamps, attraversa la Senna, è su Saint-Cloud. Alle 15, 11', 30", vale a dire a 29', 30" dalla partenza è sul punto di arrivo, lo oltrepassa e torna indietro, lancia il guide rope. Santos scende. I presenti applaudono, gridano:; — Viva Santos! — Ho vinto? — domanda ai commissari. — Sì! — grida la folla. Ma dal momento della partenza a quello nel quale è stato afferrato il guide rope sono passati 30', 40". — Siete qualche secondo fuori tempo, ma per me avete vinto, — dice Deutsch. — Avete perso per 40", — dichiara de Dion. La piccola folla che li circonda, protesta. — Io credo di aver meritato il premio, — afferma Santos — ma premio o non premio, non tenterò più. E, come Achille, si ritira sotto la tenda: non si farà vedere in pubblico fino a che la questione (che è spinosa e che suscita vivaci polemiche) non sarà risolta. Finalmente, il 4 novembre, la Commissione del Premio lo assegna a Santos. Il quale, ricevuti i 125.000 franchi, ne distribuisce 50.000 ai suoi operai, e ne consegna 75.000 al Prefetto di Polizia Lepine per i poveri di Parigi. Il Prefetto è imbarazzato (non gli era mai successo nulla di simile) e non sa come effettuare la distribuzione: — Cominciate col riscattare dal Monte di Pietà tutti gli attrezzi di lavoro e restituiteli, — suggerisce Santos. Il piccolo grande brasiliano, trionfa. I suoi connazionali si commuovono e si entusiasmano, raccolgono con pubblica sottoscrizione 100 contos di reis (che allora corrispondevano a 125.000 franchi) e glieli consegnano con una grande medaglia d'oro; questa e quelli se li tiene. Vinto il « Premio Deutsch », non più sotto il pungolo della gara, Santos-Dumont ha in animo di dedicarsi con tranquillità al pilotaggio. Cerca una località adatta, e il principe Alberto di Monaco, il grande oceanografo, gli offre di costruire un hangar nel principato. La baia, difesa dai venti freddi e dalla brezza di mare, sarà un ottimo campo di volo; e Santos potrà dedicarsi sul Mediterraneo alla prediletta navigazione sul guide rope. L'inverno è la stagione di Monte-Carlo (gioco, yachting) e l'aeronautica costituirà un'attrazione di più. L'hangar viene realizzato su disegno di Santos (acciaio, tela e legno, lungo 55, alto 15, largo 10 metri) è ampio e solido, ma è posto sul viale della Condannine, davanti alla linea del tranvai, davanti alla diga, e le manovre di uscita e di entrata non sono facili. Il N° 6, in perfetta efficienza, il 29 gennaio 1902 è in aria per la prima ascensione, e ne compirà molte e interessanti. Ma il 14 febbraio esce non perfettamente gonfio dall'hangar. A pallone inclinato in alto il gas si sposta verso la prua. Santos non riesce a mettere l'aeronave orizzontale, i fili della sospensione cominciano a rompersi a prua, quelli di poppa e i cavi del timone si impigliano nell'elica. Deve fermare il motore, e poiché il vento lo porta sulla riva contro fili telegrafici, alberi, case, tira gas e finisce in mare. Il giorno dopo involucro, trave, motore, vengono ripescati e spediti a Parigi. Dopo quell'incidente Santos suddivise gli involucri dei suoi dirigibili in compartimenti. Usò diaframmi di seta non verniciata che impediva il passaggio rapido del gas, ma permetteva l'equilibrarsi delle pressioni interne. L'hangar di Saint-Cloud non era più sufficiente, soprattutto perché il terreno (non vasto, destinato inizialmente dall'Aéro Club alla partenza verticale degli sferici) male si prestava alla partenza e alla discesa in diagonale dei dirigibili. Poi il terreno venne sconvolto con scavi di fondazioni per costruzioni di là da venire, e infine, avanti alla porta dell'hangar di Santos, a due lunghezze di N° 6, si eressero le ossature del gigantesco hangar destinato al dirigibile Ville de Paris di Deutsch de la Meurthe. Santos cercò e trovò sulla strada di Longchamps a Neuilly un terreno vasto e conveniente, i dintorni del quale si prestavano alle manovre dei dirigibili. Vi costruì un nuovo hangar, nel quale giunse a ricoverare contemporaneamente tre dirigibili: N° 7, N° 9, N° 10. Il N° 7 ha 1.257 metri cubi di volume, il motore è di 60 HP. Dovrebbe sviluppare dai 70 agli 80 chilometri all'ora di velocità (il N° 6, sul Mediterraneo, ne aveva fatti dai 36 ai 42). È un dirigibile da corsa: Santos sognava corse di dirigibili sul tipo di quelle d'automobili; ma non ebbero luogo per mancanza di concorrenti. Del N° 7 non conosciamo i risultati delle prove di volo. Il N° 10 è l’ Omnibus, Volume 2.010 metri cubi, due travi sovrapposte: nella superiore il pilota, nell'inferiore quattro navicelle, una per l'aiutante pilota, le altre per i passeggeri (quattro o cinque per navicella). Fotografie del N° 10 con la trave doppia non se ne vedono, e neppure disegni; vi è invece una fotografia che mostra, fra la trave unica e l'involucro, quattro piani sostentatori. Probabilmente appartiene al periodo nel quale Santos, in procinto di passare al più pesante, pensava a un sistema misto dirigibile-aeroplano. Visto che nessuno si presentava a competere con il N° 7, Santos si costruì un dirigibile da passeggio: è il N° 9, la più simpatica, la più disinvolta, la più maneggevole aeronave che abbia realizzata, quella che pare fatta sulla sua misura. Volume 261 metri cubi; motore Clément di 3 HP, raffreddato ad aria, pesante 12 chili. Velocità da 20 a 30 chilometri all'ora. Presenta la stessa architettura del N° 6: involucro, ballonnef, sospensione in fili d'acciaio, trave a sezione triangolare, posto di pilotaggio in avanti nella cesta, elica posteriore, timone di direzione; ma l'involucro è più tozzo, e ha forma asimmetrica: la poppa è più affusolata della prua. Si chiama La Baladeuse, la gironzolona. E Santos, con La Baladeuse, gironzola: i parigini lo vedono quotidianamente nel cielo della loro città. Spesso sul guide rope, all'altezza dei tetti, ne percorre (scegliendo ore opportune) le strade. Va a trovare gli amici nelle ville, e dopo essersi intrattenuto con loro, torna volando a Parigi; scende avanti a casa sua nella rue Washington àux Champs Elisées, e sale a prendere un caffè mentre, nella strada, il cameriere gli regge il dirigibile; va a pranzare in ristoranti famosi; sorvola il campo di corse di Longchamps mentre vi si sta svolgendo la rivista del 14 luglio 1903, e fa meditare i generali sulle possibili applicazioni belliche del più leggero. Con La Baladeuse, Santos-Dumont fa quello che non aveva mai fatto: porta dei passeggeri! Esattamente, due. Il primo è un bambino; Clarkson Potter. Il 26 giugno 1903, a Bagatelle, si sta svolgendo una festa di bambini. Santos discende dal cielo in mezzo a loro. — C'è un ragazzo che voglia fare un giro con me? Se ne presentano una dozzina; Santos sceglie il più vicino. — Non hai paura? — gli domanda mentre s'innalzano. — Neppure un'ombra, — risponde il bambino. L'altro è... un'altra, la signorina cubana Aida de Acosta dell'alta società di Nuova York. Ha visitato più volte, in comitive, rimpianto di Santos, chiedendo ogni volta di poter pilotare il dirigibile, finché lui cede. Le da tre lezioni, e poi lei parte sola e, sul guide rope, giunge fino a Bagatelle, dove scende. Qualcuno seguiva correndo, pronto a intervenire, il cavo che strisciava sul terreno, ma non servi nessun intervento. E il Santos-Dumont N°8? Non è mai esistito, perché Santos era convinto che il numero otto portasse disgrazia. Taluni non apprezzarono l'opera di Santos-Dumont perché non gli costò sacrificio finanziario: era ricco. Ma quanta gente, anche più ricca di lui, sperperò senza costrutto il patrimonio! Taluni criticarono le sue realizzazioni perché in scala ridotta; ma costruendo aeronavi sulla sua propria misura, moltiplicò le esperienze, realizzando in una settimana quanto i solenni stabilimenti aeronautici militari non facevano in un anno. Per molti le sue aeronavi erano primitive, ma esse, adeguate alla velocità che sviluppavano, mancavano solamente di impennaggi e di timoni di quota, che non erano nei concetti dell'epoca, che vennero dopo (quelli degli Zeppelin nel 1906); navigò molto sul guide rope, ma quello fu un accessorio aeronautico di grande applicazione, del quale i dirigibilisti stentarono a liberarsi. Per molti, più che un tecnico, fu un eclettico dilettante; ma nessuno può negare che, con quei suoi sigari gialli, con quei motori scoppiettanti, con le grandi eliche frullanti, girò su Parigi fino a riempire di sé la metropoli e il mondo; che dimostrò come il motore a scoppio fosse impiegabilissimo in aeronautica, come i dirigibili non fossero più un'utopia. Rilanciò il dirigibile, diede l’avvio a una serie sterminata di aeronavi di ogni tipo. © 2009 Ascanio Trojani e Francesca atraro - Tui i dirii riservati - Riproduzione vietata L i b ro Q ua rt o B l Ér i ot A CAPITOLO I Alberto Santos-Dumont a viatore lberto Santos-Dumont tenne la vedette sul grande palcoscenico di Parigi dal 1898 (dirigibile N" 1) al 1903 (dirigibile La Baladeuse}. Cinque anni di fedeltà a un idolo per un popolo notoriamente volubile come il parigino sono tanti! Ma poi il vento della fama girò: altri dirigibili più imponenti dei piccoli sigari di Santos solcarono il cielo, si parlò sempre più di aeroplani, si disse che in America i fratelli Wright avevano volato e volavano con un apparecchio a motore. L'indifferenza e l'inerzia non sono proprie del carattere del piccolo grande brasiliano: l'apostolo del più leggero passa al più pesante e, senza pensarci su molto, concepisce e mette in lavorazione un aeroplano. Il quale, se si fosse presentato a un concorso di bellezza, sarebbe stato cacciato via anche dalla giuria più longanime. Eccone le caratteristiche. Una grande cellula biplana diaframmata da piani verticali (dovrebbero assicurare l'equilibrio laterale), che presenta un forte diedro. In mezzo vi è il pilota, in piedi; dietro al pilota sono motore ed elica; sotto, il carrello di partenza e d'atterraggio a due ruote. Avanti al pilota si protende una lunga fusoliera che finisce con un timone scatolare che può inclinarsi in alto, in basso, a destra, a sinistra. Questo aeroplano è lo storico 14 bis (il N° 14 fu l'ultimo dirigibile di Santos-Dumont), e pare che corra e voli alla rovescia. È infatti (come del resto lo è anche l'aeroplano dei Wright) un « canard », ossia un'anatra, perché « canard » sono detti gli aeroplani che invece di avere la coda dietro l'hanno davanti. In verità le anatre la coda non l'hanno ne avanti ne dietro, ma quando sono in volo il lungo collo e la testa sembrano una coda. Lo strano apparecchio, dopo aver superato prove preliminari, dopo essere stato sperimentato appeso a un pallone fusiforme, dopo essere stato amputato di due ruote del carrello (inizialmente erano quattro), dopo aver corso sul campo di Bagatelle, dopo aver compiuto qualche salto, dopo che il motore Antoinette di 24 HP fu sostituito con un altro Antoinette di 50, indiscutibilmente volò. Il 12 novembre 1906 percorse in aria 220 metri in 21" e 1/5, e guadagnò il premio dell'Aéro-Club di 1.500 franchi, destinato al primo aeroplano che avesse, sotto controllo del Club, volato. La notizia dei voli di Santos si diffuse attraverso il mondo con la rapidità di un lampo, accendendo entusiasmi, creando illusioni e speranze, suscitando polemiche. A chi spetta il titolo di inventore dell'aeroplano? A Santos o ai Wright? CAPITOLO III Louis Bleriot ouis BLÉRIOT, ingegnere di Arts et Manufactures che abbiamo visto separarsi da Gabriel Voisin dopo l'insuccesso del secondo biplano, era titolare di una florida industria che produceva accessori per automobile, e soprattutto i famosi fari Blériot ad acetilene. Era sposato, con un congruo numero di figli (nel 1909 ne aveva cinque!), guadagnava molto, ma quanto guadagnava con la fabbrica di fari (e qualche cosa di più) lo spendeva in aeroplani, così che questi non volavano ancora e quella già navigava in cattive acque. Nell'anno della sua gloria Blériot aveva 37 anni, ma per le stempiature, il viso pieno, un gran naso aquilino e un paio di baffoni cadenti da antico abitante della Gallia, ne dimostrava di più. L'esame della sua attività aviatoria da l'impressione del disordine: pare che l'inventore e costruttore brancolasse nel buio. E così era in realtà, perché in realtà tutto era incognito, tutto era da inventare, tutto da realizzare e da esperimentare senza titubanze, tutto si evolveva rapidamente. A Parigi operava un vero cenacolo di aviatori, ognuno dei quali, fatalmente, era influenzato nella sua attività dalle realizzazioni degli altri, e all'inizio tutto parve svolgersi a tentoni. Lo stile dei fratelli Wright che in America agirono isolati e nel più profondo riserbo e che seguirono una loro linea costante, fu unico, e non si ripeté in Europa: la sola direttiva che gli europei ebbero in comune con i Wright fu la ferma decisione di riuscire a ogni costo. Ecco l'elenco delle realizzazioni di Blériot. Blériot I — (1901, 1902) — Apparecchio ad ali battenti, mosso da motore ad acido carbonico. Da all'inventore soltanto delusioni e dispiaceri. Apparecchi ad ali battenti (ornitotteri), elicotteri, aeroplani, erano le macchine con le quali Ì fautori del più pesante pensavano di risolvere il problema del volo. L'aeroplano vi arrivò prontamente; l'elicottero vi mise (dal Blériot I) 40 anni; l'ornitottero ha volato finora soltanto sotto forma di modello, anzi di giocattolo. BIériot II — (1904, 1905) — È il biplano che abbiamo descritto, costruito e collaudato da Voisin con il risultato del tuffo nella Senna. Blériot III — (1905, 1906) — È il biplano a cellula ellittica, 2 motori Antoinette da 25 HP, montato su galleggianti, provato da Voisin. Non vola. BIériot IV — (1906) — Biplano a cellula rettangolare, enorme coda ellittica, timone di profondità anteriore. Montato da Peyret, provato prima sull'acqua e poi sulla terra, si rompe a Bagatelle lo stesso giorno nel quale Santos-Dumont effettua il volo di 220 metri. L Il giorno dopo Biériot, impaziente, è nel suo appartamento a Neuilly, lo assistono la moglie Alice e, a modo loro, i loro cinque bambini. Il dottor Doyen lo ha visitato, medicato e fasciato, e ha prescritto un riposo di parecchie settimane. Biériot freme. Alle 10 del mattino apprende che Latham ha tentato la traversata, ma che, partito da Sangatte ha dovuto, per panne di motore, scendere in mare a 18 chilometri dalla costa francese. Biériot scatta; la moglie, dopo un timido tentativo di trattenerlo, ammutolisce; i bambini lasciano la stanza. Biériot, sostenendosi con due bastoni e procedendo a piede zoppo, va al telefono, chiama la redazione parigina del « Commentai Daily Mail » chiede che un redattore venga da lui. CAPITOLO XI Il volo che valico le Alpi OTTO questo bellissimo titolo Luigi Barzini (che seguì giorno per giorno, fino al suo eroico e tragico epilogo, quella audace impresa aviatoria) raccolse le corrispondenze che aveva mandate al suo giornale, il Corriere della Sera. Le pubblicò senza alterarle; conservano perciò la freschezza di appena scritte. Alcune sono opache, semplici riempitivi (ai giornalisti accade talvolta di dover mandare un servizio senza aver nulla da dire), molte sono palpitanti, drammatiche. Se vi accadesse di trovare il libro, leggetelo; ne vale la pena. Frattanto accontentatevi del nostro racconto. La sera del 27 settembre 1910, a Roma, in Via Alessandria, un tredicenne studente di ginnasio, usci di casa per andare a comprare La Tribuna. Il giornalaio era all'angolo di Via Reggio; il ragazzo, titubante, era combattuto fra la voglia di correre e quella di non avanzare: era ansioso di leggere la notizia, e temeva di conoscerla. Percorsi quei centocinquanta metri, afferrò il giornale, lo guardò, e grosse lacrime gli rigarono le gote: Chávez era morto. È difficile, oggi, esprimere la commozione unanime che il volo di Chávez suscitò, commozione che non è ancora spenta in chi ebbe la ventura di provarla allora. Traversata la Manica, effettuata la Londra-Manchester, superato il mare, vinte le distanze, l'aeroplano sembrava già emancipato. Ma non vi erano realmente altre barriere da infrangere? L'ostacolo esisteva e, per le possibilità degli aeroplani d'allora, era tremendo: la montagna. L'aeroplano, ancora notevolmente fragile, da una ventina di mesi appena aveva superato la prima fase dei timidi voli sperimentali ed era uscito dai campi d'aviazione per azzardarsi sulla campagna; la velocità si aggirava sui 70, 80 chilometri all'ora, l'altezza massima raggiunta era di 1.290 metri. La montagna era stato l'ostacolo che più a lungo si era opposto alle comunicazioni fra i popoli, vinta soltanto dai trafori che avevano sostituito il pericoloso e precario traffico per i valichi. Altezze non ancora raggiunte, cime vertiginose, precipizi paurosi, gole orrende, ghiacciai immensi, nevai, tormente, nebbie improvvise, nembi, bufere, venti impetuosi che si incanalavano nelle gole e nelle valli scuotendo e piegando gli alberi più solidi: questo era quanto la fiera montagna avrebbe opposto agli aviatori che, lasciata la pianura, avrebbero affrontato la scalata. A ciò pensava Arturo Mercanti, e si diceva: «l’aeroplano sarà consacrato dominatore del cielo solo dopo che avrà superato le montagne, montagne vere, montagne formidabili. E quali più vere, più formidabili montagne delle Alpi? Il Valico del Sempione, per esempio: bisognerebbe salire oltre i 2.100 metri e volarvi per più di mezz'ora, lottare contro venti a raffiche, contro un freddo al quale né piloti né apparecchi sono abituati. » S (1910) Stava organizzando una settimana d'aviazione da tenersi a Milano, e, dopo studi ed esami, inserì nel programma la gara Briga-Milano, con 100.000 lire di premio all'aviatore che, per primo, avesse effettuato il percorso. Briga è in Svizzera, nel Canton Vallese. I meteorologi competenti, previamente interpellati, erano stati quasi unanimi nel proclamare l'impossibilità dell'impresa; solo alcuni l'approvarono e l'incoraggiarono. Assicurato il finanziamento, la gara venne bandita: molti aviatori ne accolsero l'annuncio con favore. I piloti ritenuti più idonei a compiere il volo, erano Paulhan e Latham; il primo aureolato dal successo della Londra-Manchester, il secondo popolare e ammirato per il coraggio e la tenacia dimostrati negli sfortunati tentativi di attraversare la Manica. Abile pilota, bei giovane, elegante, mondano, era l’uomo del momento. Ma Paulhan si stava trasformando in industriale, e non ebbe voglia di impegnarsi in quella rischiosa impresa; Latham avrebbe voluto che la traversata fosse riservata a lui. Aderì tentennando, e infine rinunciò, accusando il suo motore di cattivo funzionamento ad alta quota; fatto verosimile, perché il motore Antoinette era troppo perfezionato e moderno (anzi futurista) per funzionare con sicurezza. Dopo esame del percorso e chiara illustrazione da parte del Comitato milanese delle difficoltà da superare, finirono con riscriversi cinque piloti: Chávez, Cattaneo, Wiencziers, Weymann, Paillette; ma di essi solo Weymann e Chávez affrontarono la prova. Weymann disponeva di un biplano Farman costruito appositamente, e comp ì numerosi tentativi, ma l'apparecchio, malgrado ripetute modifiche e messe a punto eseguite a Briga da Henry Farman in persona, si rifiutò di scalare la montagna. Chávez era già conosciuto dagli italiani perché aveva partecipato alla settimana di Verona (dal 22 al 29 maggio, pure organizzata da Mercanti), nella quale aveva montato un biplano Farman e si era distinto nelle prove di altezza. Sua peculiarità erano i voli planés a picco, precipitosi. Jorge Antonio (Geo) Chávez Dartnell, 23 anni, peruviano, era ricco: lui e i suoi due fratelli avevano ereditato dal padre una banca che lavorava con la Francia, e viveva a Parigi con il fratello che dirigeva la filiale europea. Si era dedicato all'aviazione non per sete di guadagno o smania di fama, ma per amore del rischio e dello sport, e si era appassionato alla nuova arte, ne era stato preso come da una religione. In dedizione completa, le lusinghe di un mondo frivolo non erano più niente per lui. Partecipava alle gare perché vi era costretto da una clausola del contratto senza il quale non si poteva acquistare un Farman, ma agognava di compiere qualche impresa nuova e grande, e non era soddisfatto del suo biplano pigro a salire: avrebbe voluto una macchina che scalasse fulmineamente il cielo. Provò il monoplano Blériot, e al primo volo salì a 1.200 metri: era quello l'aeroplano che ci voleva per lui. Era pilota dal Febbraio del 1910. L'annuncio della gara lo interessa, insieme con gli amici Duray (pilota di Farman, appena rimesso da una grave caduta a Verona) e Christiaens si reca sul posto. I tre, accompagnati da Mercanti, compiono in automobile il percorso, lo esaminano, si rendono conto delle difficoltà. Chávez ne è avvinto, sente tutto il fascino della prova, la tenterà; e prega Mercanti di iscriverlo. Ma non monterà il Farman, avrà un Blériot. — Ho telegrafato a Blériot ordinando un apparecchio tipo traversata. Me lo deve consegnare 1'otto Settembre mattina. Ne farò il collaudo battendo, su Parigi, il record d'altezza. Sarà già qualche cosa. Il 9 Settembre. Mercanti legge sui giornali che Chávez ha collaudato, portando il record mondiale d'altezza a 2.580 metri, il monoplano consegnatogli da Blériot. Ha mantenuto la promessa. L'organizzazione aerologica e delle comunicazioni, dell'assistenza ai piloti in caso di discese forzate, delle segnalazioni che permetteranno loro di riconoscere dall'alto il percorso, viene avviata sui due tratti, italiano e svizzero. Gli italiani operano con entusiasmo e abbondanza di mezzi (eliografi sulle cime, telegrafi e telefoni, stazioni radio, pattuglie di alpini dislocate lungo il percorso nei luoghi più impervi e pericolosi); gli svizzeri fanno del loro meglio, ma i loro mezzi sono scarsi, e il responsabile del loro servizio meteorologico (illustre professore convertitosi all'ultima ora alla possibilità della traversata) non dimostrerà zelo eccessivo. Gli svizzeri stendono una linea telefonica sulla strada del Sempione, da Briga al confine, ma la gendarmeria la terrà quasi sempre occupata per regolare il traffico, e lo regolerà più con l’occhio volto alle multe che al suo sveltimento. Chávez ha spedito per ferrovia il Blériot a Briga. Lui, Duray e Christiaens, sono sul posto, e fanno e rifanno il percorso nelle sue prevedibili (in relazione alle condizioni atmosferiche del momento) varianti, lo studiano planimetricamente e altimetricamente (Chávez ha un barografo registratore che non lascia mai), fanno la spola fra Briga, Domodossola, Milano. Molti dei migliori piloti (non concorrenti) vanno a Briga, fanno in automobile il valico del Sempione, esaminano i luoghi, restano colpiti dalla bellezza della prova e dalle sue terribili difficoltà II Blériot di Chávez è arrivato. Chávez vuole vincere, e non si stanca di studiare il percorso sulle carte e sui luoghi, e predispone accuratamente al grande volo, motore, apparecchio, sé stesso. Il suo monoplano, non molto diverso dal glorioso XI, è uguale a quello dei vincitori del Circuito dell'Est. Il pattino di coda renderà meno pericolosi gli eventuali atterraggi in pendio, il motore è lo Gnome rotativo di 50 HP. Chávez ha preso le opportune precauzioni contro il freddo: il serbatoio, le tubazioni, ogni parte del motore che possa risentirne, sono state fasciate di ovatta e di amianto; lui ha uno scafandro foderato di seta impermeabile, imbottito di ovatta, e un elmetto di ovatta e cuoio. Anche l'aeroplano di Weymann è giunto a Briga, ma lo si sta ancora montando. È un biplano di linea moderna (per l'epoca), però Farman è ancora incerto sulla convenienza di abolire l'obsoleto e dannoso timone di profondità anteriore. Chávez è pronto. Christiaens è con lui a Briga, e lo assisterà alla partenza; Duray è a Domodossola, dove il Blériot farà scalo per rifornirsi di benzina e d'olio: nella traversata conviene tenere l'apparecchio il più leggero possibile. Da Domodossola a Milano il volo non presenta difficoltà particolari. Il tempo si fa propizio, e la mattina di domenica 18 settembre, fino alle 10, sarà splendido, Chávez potrebbe partire, ma il Consiglio Cantonale del Vallese ha proibito i voli fino a mezzogiorno. È festa, e i cittadini sono religiosi, ma, oltre che dal desiderio di assis- tere ai servizi divini, sono animati da concetti pratici; non è interesse degli albergatori che il richiamo dei turisti rappresentato dalle prove di volo e dai tentativi (trasformati dalla propaganda locale nella «Settimana d'Aviazione di Briga») si esaurisca il primo giorno con il compimento della traversata. Il Comitato milanese ha protestato, ma il divieto viene mantenuto, il Blériot di Chávez è piantonato dai gendarmi, e Chávez non può partire. Peccato, perché solo in quella mattina il tempo fu veramente favorevole, e solo quel divieto, forse, causò il finale tragico dell'impresa. I concorrenti devono preavvisare il Comitato, con almeno sei ore di anticipo, del loro proposito di partire. Alle 7 di sera, i Commissari di gara ricevono una dichiarazione di Chávez: «Signori Commissari, ho intenzione di partire domani, lunedì, per la traversata delle Alpi, alle sei del mattino». È mattina, è ancora buio, e Chávez nel suo hangar illuminato da una candela, accanto all'aeroplano che nella penombra sembra un formidabile mostro alato, fuma una sigaretta mentre, aiutato da Christiaens, veste il costume di volo. È silenzioso e pensoso; un giornalista francese mormora: — Sembra la toilette di un condannato a morte. Sorge l'alba, il cielo si schiarisce, i monti si illuminano. Chiesta al Sempione la situazione meteorologica, rispondono che il tempo è calmo, che si può partire. Chávez decide: tenterà la traversata. L'hangar viene aperto, le automobili staffette lasciano il campo e si avventano rombando sulla strada del Valico. Il monoplano, elegante, lieve, diafano, si stacca da terra e si innalza, in ampi giri, su Briga. Fino alla quota di 1.400 metri, l'aria è calma; oltre i 2.000 vento moderato, teso; a 2.200 Chávez punta sul Valico del Sempione. Il valico è chiuso, bloccato da due strati di nubi sovrapposte: l'inferiore scende rapidamente dalla destra e risale le rocce; il superiore pare una muraglia: alto, immobile. Fra i due strati, giù in basso, piccolo, con i suoi segnali di orientamento, è l’albergo del valico. Ma non si passa. Chávez pensa di innalzarsi oltre le cime, oltre le nebbie, oltre le nubi, e di dirigersi con la bussola su Domodossola. Sale fino a 2.400 metri fra leggeri colpi di vento; le precauzioni prese contro il freddo, risultano efficaci: né lui né l'apparecchio ne risentono; il motore funziona perfettamente. Un improvviso vuoto d'aria fa precipitare l'aeroplano di un centinaio di metri, Chávez lo richiama manovrando il timone di profondità, e l'aeroplano si impenna; poi è preso e sballottato da un incrocio di venti. Non è possibile procedere, non è possibile scendere: sotto di lui sprofonda un caos di rocce senza fondo. Bisogna tornare indietro. E Chávez cala precipitosamente, a pieno motore per non venire sbattuto dal vento contro le pareti a picco. Atterra, con magnifica precisione, su un praticello vicino al campo di partenza. Scendendo dall'apparecchio non mostra emozione ne disappunto. Ma dice a Christiaens: — Dare la vita per non riuscire sarebbe stupido: darla per riuscire, sì che sarebbe bello. Il tempo che aveva trovato sul Sempione era pessimo, tremendo. Come si giustificava la telefonata rassicurante che affermava: «tutto è calmo, si può partire»? Semplice: il responsabile del servizio meteorologico si era allontanato, era sceso a Briga, e aveva lasciato all’albergatore del Kulm l'incarico di rispondere alle richieste di informazioni. E come poteva l'albergatore non assecondare il desiderio degli ospiti di vedere l'aeroplano? Chávez non protesta, non recrimina. Soltanto decide di mandare al Sempione Christiaens, e si fiderà solo di lui. Passano tre giorni di tempo non buono. Il valoroso Weymann, sbarbato, occhialuto e paffuto come uno studente di teologia, imbacuccato come un esploratore polare, prova ripetutamente il suo biplano, ma questi non ne vuoi sapere di salire: non riesce neppure a superare i contrafforti del Sempione. Chávez è impaziente, il desiderio di ritentare l'impresa lo assilla, le ore gli pesano. Venerdì 23 il tempo non è ancora stabilizzato: sul versante italiano, calma; su quello svizzero, vento impetuoso. Chávez è pronto. Ha indossato il costume di volo, vuoi partire. Pensa che non troverà più condizioni così favorevoli nel tratto italiano. Christiaens dal Simplon Kulm gli telefona di minuto in minuto la situazione metereologica. Lui vuole andare a vedere, chiede un'automobile. Il vento nella valle di Krummbach alle spalle del Sempione, è forte. Giunge Paulhan che toma da una ricognizione: verso il Monscera l’aria è calma. Nonostante Christiaens lo sconsigli: — Quale errore! — esclama. Chávez decide invece di partire. In un cielo chiaro e calmo valica il Sempione, imbocca la Vallata di Krummbach, affronta il Passo di Furggen per entrare nel Valico del Monscera. Ma questi è chiuso: venti contrari lo battono, e il monoplano, fra le montagne, è preso dai turbini come un fuscello, lanciato in alto, sbattuto da destra a sinistra, colpito da raffiche dure come mazzate. Chávez sente il sedile sfuggirgli di sotto, sente l'apparecchio sbattergli contro, manovra aggrappato al volantino. Non guarda in basso. Avanti a lui è il Monscera: irraggiungibile; alla sua sinistra la stretta Gola di Zwischberger. La infila, a 2.100 metri gira intorno al Seehom ed entra nell'orrida Gola di Gondo, e volando più basso delle cime, segue la valle. Il vento ancora lo porta in alto, lo butta giù; ma è in coda, e l’aeroplano fila veloce. Quel volo appare un prodigio. L'aeroplano bianco e diafano che si staglia contro il cielo, che procede superbo nel rombo canoro del motore e dell'elica, non è forse un Genio alato che passa vincendo venti e turbini, violando i baratri profondi, i ghiacciai immensi, le bianche eccelse cime? No. È solo un cuore d'uomo che domina la montagna reggendo la macchina che l'uomo ha creata. Sulle strade, sui greppi, nei villaggi, un'onda irrefrenabile di ammirazione che diventa commozione, che attanaglia i cuori, lo saluta e lo segue, i voti di tutti lo accompagnano. Nessuno ha gli occhi asciutti. Gli stessi gendarmi, saliti, per aprirle la strada, sull'auto di Barzini che corre verso Domodossola, piangono, e mormorano teutonicamente: — Mon Tieu, mon Tieu... Quel volo pare trasformarsi in apoteosi. Chávez prosegue. Punta su Varzo scendendo rapidamente, scorge la Valle dell'Ossola, punta su Domodossola, e cala a picco sul campo con uno dei suoi vertiginosi planés accompagnati da spuntate di motore. A venti metri richiama: le ali si ripiegano in alto e in avanti, l'aeroplano precipita, urta contro terra, si rovescia sul dorso, si riduce a un mucchio di rottami. Sono le 14 e 14. Quel volo è stato come il passaggio di una meteora: è durato 45 minuti. Frattanto, anche Weymann è partito; ma dopo 13 minuti è tornato al campo di Briga. E non tenterà più. Le lesioni riportate da Chávez non parvero mortali, la sua guarigione pareva certa. Invece, in quattro giorni egli si spense, ucciso, più che dalle ferite, dalla grandezza dell'impresa compiuta, tanto grande da soffocare e spegnere il suo cuore d'uomo. Povero Chávez! Ma quella che mi parve allora ingiustizia e crudeltà della sorte, che fece versare lacrime disperate dai miei occhi d'adolescente, mi sembra oggi grazia e premio del destino, che trasformando il giovane in Eroe, il precursore in martire, accese un faro luminoso sul tetro mare della bassezza e della volgarità umane. Povero Chávez! Le tue ultime parole, dopo il delirio nel quale continuavi l'interminabile tuo volo, furono: — No... ciò non esiste... No... io non muoio. No, non sei morto. Il tuo spirito plana ancora sul Valico del Sempione, sulla Gola di Gondo, sul Piano di Domodossola, sull'Alpi da te dominate. Il tuo ricordo vive in chi ascoltò l'epopea della tua gesta, in chi visse il tuo tragico trionfo. E il tuo esempio serve e ancora servirà a quanti credono e crederanno che coraggio, entusiasmo e poesia, non devono finire. Chávez fu il 16° aviatore morto per incidente di volo. Dei primi 100 caduti, 1 perì nel 1908, 3 nel 1909, 30 nel 1910, 66 dal 1° gennaio al 15 novembre 1911. Il Blériot ed altri cimeli sono ancora conservati a Domodossola, nel piccolo museo che porta il nome di Chávez. © 2009 Ascanio Trojani e Francesca atraro - Tui i dirii riservati - Riproduzione vietata


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